martedì 2 marzo 2010


kibbutz Yotvatà

Rassegna stampa

Lo «slanciato ed elegante» Bashir Assad e il «brevilineo e trasandato» Mahmoud Ahmadinejad si sono stretti la mano in un accordo che se di acciaio non è senz’altro potrebbe definirsi di ferro. Speriamo che ci piova sopra, così si arrugginisce un poco. Le vecchie e le nuove alleanze mediorientali sono l’oggetto degli articoli di Alberto Negri su il Sole 24 Ore di oggi, di Carlo Panella per Libero e di Michele Giorgio su il Manifesto dove ci si sofferma sull’asse preferenziale tra Damasco e Teheran, rinsaldato in un vertice dai toni fortemente antiamericani. Il tutto si consuma in un Medio Oriente che ha registrato già da tempo il declino della primazia araba, alla quale si è invece contrapposta e sovrapposta quella iraniana prima e – adesso - turca. Ed infatti il futuro di Ankara, le sue scelte ancora incerte, sospese tra una proiezione europea che oramai si è fatta molto fragile e il richiamo al rapporto con la realtà del Mediterraneo orientale, costituisce uno dei punti interrogativi sui quali si giocano le partite del tempo a venire. Da ciò che la capitale sciita e quella kemalista dovessero decidere, rispetto ai propri assetti e, di riflesso, a quelli dei propri vicini, dipenderanno quindi le prospettive dei prossimi dieci anni almeno. Poiché se l’Egitto, salvo radicali mutamenti di equilibri interni – cosa che non può essere esclusa in assoluto, soprattutto nel momento in cui il rais cairota Mubarak non dovesse governare più – è un paese relativamente calmo, e se la Siria non ha la forza di muovere guerra ad Israele, di certo non la stessa cosa può dirsi dell’Iran fondamentalista. Non di meno la Turchia, che sembrava essere divenuta un fattore di stabilità, negli ultimi anni ha avviato una complessa manovra di mutamento della sua collocazione, con i processi di islamizzazione che hanno coinvolto non solo una parte del potere politico ma anche segmenti significativi della popolazione. A resistere alle spinte indirizzate in tal senso, oltre a molti esponenti della società civile che male si troverebbero in un paese che della secolarizzazione delle proprie istituzioni ha fatto ragione di vita, è l’esercito, ombra dei poteri e garante di equilibri che, fino ad oggi, non sono stati modificati oltre certe soglie critiche. Al riguardo si veda quanto riporta il Foglio sotto il titolo «Se Bruxelles favorisce la deriva turca». Vedremo come andrà a finire, per così dire, ma è certo che la partita sia aperta nonché imprevedibile per più aspetti. La stabilità interna dei regimi della regione mediorientale è strettamente legata all’evoluzione delle loro economie e alla capacità di farsi garanti di quella funzione di integrazione sociale la cui mancanza è stata all’origine dell’instabilità di molti di essi. L’islamismo radicale, prepotentemente tornato sulla scena a partire da circa trent’anni, è infatti l’attore che si alimenta delle incapacità congenite delle società politiche locali di svolgere questo ruolo ed oggi ha spazi insperati dinanzi a sé. Voltiamo pagina. Per chi ama le storie di spie e spionaggio, che servono a riempire le pagine soprattutto quando si è a corto di notizie, il Mossad continua a tenere campo. Pino Buongiorno su Panorama ci racconta ancora una volta della vicenda di Dubai, dove la morte di Mahmoud al-Mabhouh, procacciatore di armi e missili per Hamas, è l’occasione per fare un ritratto del direttore del servizio segreto israeliano Meir Degan. Più incisiva sui fatti di cronaca è invece la Repubblica per la penna di Vittorio Zucconi che, come è di sua abitudine, ci offre un pezzo di colore, vivace e molto narrativo, redatto più con l’intento di ammaliare e sedurre che di informare. Non infrequentemente certi articoli occupano nei nostri quotidiani il posto che nell’Ottocento avevano i feuiletton, destinati ad assicurarsi la fedeltà dei lettori nel corso del tempo. Lo spionaggio si presta a divenire la trama di un romanzo d’appendice, con quella sua miscela tra avventura e truculenza, che tanto piace a chi si reca ogni mattino al suo abituale lavoro, sbadigliando e pensando al capoufficio, alla moglie e alla suocera e a come vorrebbe tanto avere, al loro posto, un orizzonte di «vita spericolata», per dirla con Vasco Rossi. Sempre sulla medesima testata Fabio Scuto aggiorna i lettori sullo stato delle indagini e sul coinvolgimento di «talpe» palestinesi nell’intera operazione. Il repertorio delle attività dell’«Istituto» israeliano è infine rammentato da Fabio Isman su il Messaggero. Senza rivolgersi a scenari più o meno occulti o occultati rimane il fatto che la tensione cova sotto le ceneri. Ne è un rimando la cronaca di Eric Salerno, sempre su il Messaggero, dove si racconta dell’ennesima tornata di violenze ad Hebron, scatenata questa volta dalla scelta del premier Netanyahu di inserire la Tomba dei Patriarchi e la Tomba di Rachele nel novero dei luoghi tutelati dallo Stato d’Israele in quanto sedi di valore artistico, culturale, spirituale e storico. Che la città sia uno degli snodi del conflitto israelo-palestinese è cosa risaputa, raccogliendo alcuni simboli fondamentali per l’ebraismo in un territorio a grande maggioranza arabo. Non di meno, trattandosi di una delle aree urbane più importanti della Cisgiordania, è anche uno dei territori contesi al controllo da Hamas a Fatah, presidio, insieme a Ramallah e a poche altri centri abitati, di una piccola e media borghesia palestinese che rappresenta ancora l’asse del potere di Abu Mazen, senza il quale quel che resta della contestata e controversa Autorità nazionale sarebbe destinato ad eclissarsi nel giro di pochissimo tempo. Il ripetersi, purtroppo in parte prevedibile, di violenze e intemperanze, trova quindi una sua ragione manifesta nelle circostanze occasionali che possono avere alimentato il contrasto ma si alimenta soprattutto di un disagio di lungo periodo, che molto ha a che fare con le dinamiche interne alla società palestinese, da anni è entrata in uno stallo dovuto all’inerzialità politica di cui soffre profondamente. Altro articolo, altro scenario, anzi, altro film. Nicola Lagioia sul Riformista di oggi si esprime elogiativamente riguardo al lavoro di Giorgio Diritti, «L’uomo che verrà», intensa pellicola dedicata a Marzabotto. Recuperando la lezione di Ermanno Olmi il regista ci consegna uno spaccato di una Italia sospesa tra la vecchia ruralità, i suoi tempi lunghi, e i riti comunitari di chi viveva antiche solidarietà, spazzate via dalla tracotanza e dalla ferocia dell’occupante tedesco e dei suoi burattini neofascisti. Insomma, un invito a rileggere il nostro passato a partire da un approccio calato nella realtà dei colori e degli odori di quel tempo. Poiché la storia odora e ha i suoi colori, come gli uomini che la fanno, a volte anche inconsapevolmente. Claudio Vercelli, http://www.moked.it/

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