lunedì 15 marzo 2010




Kuala Lampur


Kuala Lumpur: quell’islam che ama la diversità. Ebrei globali

Nel groviglio di strade che attraversano Kuala Lumpur, l’avveniristica e svettante capitale della Malesia, a ogni passo si incontrano volti dai tratti somatici differenti, che raccontano l’appartenenza a comunità distinte per storia, lingua, tradizione e religione, ma unite nella convivenza quotidiana. È proprio questo l’aspetto che più colpisce, al primo impatto, il visitatore occidentale. In Malesia vive una società storicamente multirazziale, formata, nei secoli, dalle successive ondate migratorie di popoli provenienti dai Paesi vicini, come la Cina e l’India e, più recentemente, dalle Filippine. Oggi, i malesi costituiscono poco più della metà della popolazione; la seconda comunità è costituita dai cinesi, mentre gli indiani rappresentano la terza comunità. Il resto della popolazione è composto da numerose minoranze. Inoltre, nelle foreste pluviali incontaminate degli Stati del Borneo malese, il Sarawak e il Sabah, risiedono gli abitanti originari della Penisola, che, ancora oggi conservano abitudini nomadi, di cacciatori-raccoglitori, e praticano un’economia di sussistenza legata al baratto dei prodotti della giungla. Ma nel cuore della moderna capitale, immersi in una babele di lingue mimetizzate dietro l’inglese coloniale, non poteva mancare una Comunità Ebraica. Fra il milione e mezzo di abitanti di Kuala Lumpur e i circa 27 milioni in Malesia, Gary Braut è l’unico a indossare una kippah. Nato e cresciuto a Brooklyn, precisamente “a Crown Heights, accanto alla casa del Rebbe”, come si affretta a puntualizzare, Gary “Leibel Ben Peretz Ha Levi” Braut, 62 anni, si è stabilito in Malesia poco più di vent’anni fa, con lo scopo di avviare un commercio oggi fiorente. Senza alcun dubbio, il presidente della “Mist Judaic Foundation” e fondatore della “Worldwide Pirkei Association” testimonia la vita di un ebreo a Kuala Lumpur. “La presenza ebraica in Malesia - racconta Braut - non è da rintracciarsi qui, nella capitale, ma più a Nord, nello Stato di Penang, dove, agli inizi del XIX secolo, si stabilì Ezekiel Menassah, il primo ebreo giunto in Malesia da Baghdad. Per più di trent’anni, Menassah rimase l’unico ebreo residente nel Paese, continuando a osservare le festività e la Kasherut”. Qualcosa iniziò a cambiare dopo la prima Guerra Mondiale, quando alcune famiglie, provenienti dal Medioriente, si stabilirono in Malesia. Negli anni del Secondo Conflitto Mondiale, la Comunità Ebraica di Penang venne sfollata a Singapore dalle forze armate britanniche, che temevano rappresaglie e deportazioni da parte dei militari Giapponesi.Dall’inizio dei primi anni Sessanta, in Malesia risiedono una ventina di famiglie ebraiche. “Nella capitale dello Stato di Penang, George Town - prosegue Braut - in quella che, un tempo, era la Jahudi Road (la strada degli ebrei), oggi ribattezzata Jalan Zainal Abidin, si trovano una piccola congregazione e un cimitero ebraico, ritenuto il più antico della Malesia, se non, addirittura, dell’intero Sud Est asiatico. Lì, sono presenti circa settanta tombe e sono sepolti i soldati ebrei inglesi caduti sul suolo Malese durante la Seconda Guerra Mondiale. Nel 1976, purtroppo, la sinagoga fu chiusa per mancanza di un minian. Nonostante la mancanza di una comunità vera e propria, il cimitero è tuttora visitabile e mantenuto in ottime condizioni”. Per Braut, essere ebreo in uno Stato musulmano non costituisce un problema: Gary non nasconde in alcun modo la sua identità religiosa, tanto che tutti coloro che varcano l’ingresso della sua abitazione non possono fare a meno di notare la scritta “Chabad House, Mikvah Malaysia” e, una volta all’interno, sono colpiti dal solido Aron HaKodesh in marmo e dalle numerose fotografie che ritraggono il “Sultan” of World Jewry, Rabbi Menachem Mendel Schneerson, the Lubavitcher Rebbe. “Qui - ha aggiunto Gary Braut - abbiamo piena libertà di culto e religione. Una comunità tanto piccola attira poca attenzione e così ci lasciano liberi di manifestare la nostra fede. Le difficoltà, semmai, nascono proprio dall’isolamento e dall’esiguità numerica che, molto spesso, mi impediscono di essere pienamente osservante, anche se rispetto shabbat e le festività. Mi piace dire e pensare che la forza della mia fede si manifesta nel riconoscere ogni persona che incontro, ebrea o non ebrea, come figlia di Dio”. Campioni di convivenzaPasseggiando per Kuala Lumpur, è davvero facile imbattersi nei luoghi di culto delle religioni praticate dalle diverse comunità. Malesia quindi come luogo di integrazione, dove tutti hanno la libertà di credo e di seguire la propria cultura? Sì. “Questo moderno Paese asiatico - ha scritto in un articolo Ben Mollov, docente di Scienze Politiche e Gestione dei conflitti alla Bar-Ilan University di Tel Aviv - è un vero pioniere, un campione della buona convivenza sociale. Per ragioni accademiche, sono stato in Malesia in due diverse occasioni, nel 2005 e nel 2008. La mia conclusione non cambia anche dopo essere entrato maggiormente in contatto con la realtà locale e avere osservato una disparità di diritti fra le diverse comunità, che hanno inevitabilmente appannato la prima immagine di perfetta fusione fra culture che avevo ipotizzato”. Secondo il parere di Mollov, pur con evidenti limiti che coinvolgono soprattutto le minoranze più esigue, la Malesia si è sforzata di trovare un equilibrio multiculturale pur tenendo salda la sua identità musulmana. “Nel corso della sua storia, questo Paese ha affrontato più volte le problematiche legate all’integrazione. Al ritorno dal mio primo viaggio considerai la Malesia come un esempio per superare le differenze sia culturali, sia religiose che, al giorno d’oggi affliggono Israele e molti altri Paesi. Tornai a casa vedendo la Malesia come una possibile società islamica aperta e tollerante. Nonostante le restrizioni osservate, anche oggi sono certo che possa essere un modello per il mondo, in grado di guidarci verso un sereno incontro di civiltà”. http://www.mosaico-cem.it/

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