lunedì 29 marzo 2010

L'anno prossimo a Gerusalemme

Domani (stasera) sera in tutte le case ebraiche, dopo il vino, l'haroset, le erbe amare, i salmi e le storie, proprio alla fine della sera, si diranno tre parole decisive, che danno al seder una presa sull'attualità che non è mai cessata da quando i saggi hanno fissato l'Haggadà. Diremo, come tutti gli anni "Leshanà habbà beJerushalaim", l'anno prossimo a Gerusalemme. Per secoli questa è stata solo una promessa spirituale, una speranza che non moriva. Una preghiera. Gradualmente, a partire da centocinquanta anni fa, la clausola è diventata concreta, il senso è cambiato in un invito a salire davvero in Eretz Israel. Una proposta, una richiesta. Poi, a giugno di sessantatre anni fa a Gerusalemme ci siamo insediati davvero. Dal senso della frase non è sparito l'invito all'alyà, ma si è aggiunta la gioia di una realizzazione. Era diventata un segno di festa. Magari fra mille problemi, Gerusalemme era comunque tornata al popolo ebraico, dopo centinaia, migliaia di instancabili ripetizioni di quella formula.Tutti sappiamo quel che ho appena riassunto. Perché parlarne ancora? Perché non è affatto detto che l'anno prossimo saremo ancora a Jerushalaim. Se le cose andassero come sembrano volere non solo i palestinesi e il mondo arabo e islamico, ma anche l'Europa e l'America di Obama, l'anno prossimo di Gerusalemme potrebbe restarci solo la periferia occidentale, quartieri simpatici come Rehovia. Come negli anni fra il '48 e il '67 la parte occidentale delle mura di Solimano, dalla cittadella di Davide alla porta di Giaffa sarebbero di nuovo il confine di due Stati. Per capire quel che accadrebbe all'interno della Gerusalemme storica basta ricordare la legione araba guidata dagli inglesi nel '48 all'assalto del quartiere ebraico: non lasciarono pietra su pietra, bruciarono tutto, costruirono strade con le lapidi del Monte degli Ulivi.Non voglio rovinare la festa a nessuno, ma è di questo che si discute oggi. Non delle 1600 case in un quartiere o delle 20 di un'altro: il problema è se Israele debba restare beJerushalaim o no. Sul nostro Stato si sta addensando una "tempesta perfetta" come nei film: l'arma atomica iraniana, il terrorismo, l'odio del mondo islamico, l'idea comune a Obama e all'Europa che per fare la pace col mondo islamico bisogna fare a Israele quel che Francia e Inghilterra fecero alla Cecoslovacchia a Monaco 29 al 30 settembre 1938: una bella conferenza senza la partecipazione della vittima, che diede a Hitler quel che voleva con l'illusione di acquietarlo col riconoscimento della sua potenza. (Come sappiamo non si tranquillizzò affatto, anzi, ma questa è un'altra storia). Il rifiuto generale di qualunque mossa Israele faccia per difendersi da nemici aggressivi e violenti: le campagne militari, la barriera di sicurezza, le esecuzioni mirate, l'esercito, i servizi segreti, la giustizia. Attualmente, che io sappia, l'America è "indignata" per l'insulto di Israele che costruisce case nella sua capitale, Inghilterra e Australia sono "offese" per vie dei passaporti di Dubai, l'Europa è "scontenta" delle scelte di Israele, l'amica Italia ha appena proposto per bocca del presidente della repubblica e di quello del consiglio uniti per l'occasione una resa senza condizioni alla Siria. Anche la Chiesa vuole che Gerusalemme sia quanto meno internazionalizzata e lo dice a voce sempre più alta. La stampa è unanime nel condannare. Una bella fetta di prestigiosi intellettuali ebraici che si dicono pacifisti, per fortuna del tutto privi di seguito popolare, fanno il possibile per convincere tutti che il popolo di Israele non esiste, che la fondazione dello Stato ebraico è stato un crimine, e comunque per far sì che leshanà habbà a Gerusalemme comandi Abu Mazen o magari anche Hamas. Il Consiglio dei diritti umani delle Nazioni unite ha approvato un paio di giorni fa quattro mozioni quattro di condanna a Israele, con una maggioranza di 39 a 5 (e 11 astenuti). Fra i contrari c'era l'Italia, ma non è una consolazione. Eccetera eccetera.Certamente il nostro popolo e il suo Stato non sono spacciati, hanno ancora la sua forza militare ed economica, la creatività, la combattività, l'ostinazione che Israele mostrava già uscendo dall'Egitto. Il popolo ebraico ha il suo destino storico, la fede che ci ha portato per due millenni a ripetere il seder e la sua formula finale. Ma domani sera, forse, guardando la sedia che lasceremo vuota per Gilad Shalit, dovremo interpretare di nuovo la formula millenaria come una preghiera e magari aggiungere sottovoce un'altra parolina, un davar acher: (gam) leshanà habbà biJerushalaim: anche l'anno prossimo a Gerusalemme. Speriamo.Ugo Volli, http://www.moked.it/

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