mercoledì 7 aprile 2010


Israele: Bibi Netanyahu, rimasto solo contro tutti

È stata una cena pasquale tutta in famiglia a Beit Aghion, la residenza ufficiale del primo ministro d’Israele, a Gerusalemme. Per il «Seder» che dà inizio al Pessach, la Pasqua ebraica, la sera del 29 marzo, Benjamin Netanyahu non ha invitato quest’anno nessun soldato senza famiglia, ma ha voluto accanto a sé e alla moglie Sarah solo i parenti più stretti. Primo fra tutti il patriarca, il professor Benzion, che solo quattro giorni prima aveva compiuto 100 anni. Noto intellettuale della destra israeliana, storico revisionista del sionismo, papà Benzion è il consigliere principale di Benjamin, «Bibi», come lo chiama fin da bambino.A un anno esatto dall’inizio del suo secondo mandato come premier israeliano (la prima volta fu dal giugno 1996 al maggio 1999), Benjamin Netanyahu, 60 anni, è alla prova della vita come leader politico. Solo una settimana prima delle festività pasquali, a Washington, è stato umiliato dal presidente Barack Obama, visibilmente infuriato per i reiterati annunci da parte del governo israeliano di volere costruire nuove abitazioni nella parte araba di Gerusalemme: il che blocca di fatto l’avvio dei negoziati indiretti con i palestinesi vanificando gli impegni internazionali presi dalla Casa Bianca con i leader arabi alleati. È la più grave crisi nei rapporti fra Stati Uniti e Israele, che porta di fatto all’isolamento dello stato ebraico, dal momento che anche l’Unione Europea si è schierata compatta con l’amministrazione americana. E questo accade nel momento in cui l’Iran e la sua bomba nucleare diventano sempre più una minaccia ineludibile.In patria, proprio il giorno che ha dato l’avvio alla settimana pasquale, il quotidiano Ma’ariv ha pubblicato un sondaggio sul primo anno di governo di Netanyahu assai poco promettente. Il 53,2 per cento degli israeliani (contro il 41,2 per cento) non è soddisfatto della sua leadership. Se le elezioni si dovessero svolgere in questo momento, Kadima, il partito di centro guidato da Tzipi Livni, ora all’opposizione, avrebbe il maggior numero di seggi e il Likud, il partito di Netanyahu, ne perderebbe qualcuno. Ancora più disastroso il crollo dei laburisti di Ehud Barak, oggi alleati di governo. Risultato: sarebbe auspicabile una sola maggioranza con Livni dentro la coalizione e, per di più, nella posizione di dettare legge. Ma il dato più preoccupante, dal punto di vista del premier, è un altro ancora. Sebbene lui e i suoi partner dell’estrema destra religiosa e nazionalista (Shas e Yisrael Beiteinu) continuino a battersi per l’unità di Gerusalemme, un’ampia fetta di opinione pubblica israeliana al contrario appoggia la proposta americana elaborata fin dai tempi di Bill Clinton: il 46,2 per cento (contro il 38,9) si proclama a favore della soluzione «due stati», uno israeliano e uno palestinese, che prevede il ritorno ai confini del 1967, con lo smantellamento delle colonie e la divisione di Gerusalemme.
«Figlio mio, l’unico tuo impegno deve essere quello di salvare il popolo ebraico, che io vedo a rischio come mai nella storia recente» è stato, quella sera, il consiglio di papà Benzion facendo riecheggiare le stesse parole pronunciate il giorno del suo centesimo anniversario. Per il primo ministro la scelta è proprio questa: arroccarsi sulle colonie rischiando l’emarginazione internazionale o preparare la difesa strategica contro l’Iran stringendo patti di ferro con il maggior numero di nazioni al mondo? Più semplicemente: sopravvivere come leader o passare alla storia come statista?Sostiene il politologo americano Fareed Zakharia: «A Bibi piace paragonarsi a Winston Churchill per il suo monito al mondo sulla tempesta in arrivo. Ma lui dovrebbe ricordare che l’unica ossessione di Churchill alla fine degli anni Trenta era di rafforzare l’alleanza con gli Usa, a qualsiasi costo, concessione e compromesso».La verità è che Netanyahu è finito in rotta di collisione con Obama non capendo che l’America è cambiata. E anche il resto del mondo. Ha scommesso su un presidente tutto impegnato sulle questioni di politica interna ed è sbarcato a Washington il giorno dopo la storica vittoria congressuale con l’approvazione della legge di riforma della sanità, che ha galvanizzato ancor più Obama. Ha pensato di fare affidamento ancora una volta sulla potente lobby ebraica dell’Aipac e non si è accorto della sua perdita progressiva di peso a favore di altre organizzazioni (J Street e Israel Policy Forum) più liberal e composte da giovani ebrei che vogliono la pace e non nuovi insediamenti. Ma soprattutto non ha creduto fino in fondo alla svolta impressa dalla Casa Bianca alla politica mediorientale.
Se solo Netanyahu avesse prestato attenzione alle parole pronunciate dal generale David Petraeus, il supremo comandante americano dei teatri di guerra più caldi (dall’Afghanistan al Medio Oriente), forse sarebbe stato meno baldanzoso, com’è nel suo carattere. Testimoniando alla commissione Forze armate di Washington, Petraeus ha sostenuto che il conflitto fra israeliani e palestinesi continua a fomentare sentimenti anti Usa, coltivati da Al Qaeda, Hezbollah, Hamas e Iran per complicare la vita innanzitutto ai soldati americani nella regione. Il governo guidato da Netanyahu, che non sblocca il negoziato con i palestinesi, diventa «una zavorra strategica» per l’interesse nazionale americano.È una svolta, sì, che però va a fare il paio con un’altra svolta in Israele. Il presidente Shimon Peres lo ha ricordato poco prima dell’inizio della Pasqua ebraica partecipando al compleanno della figlia di Ytzhak Rabin, Dalia. «Tutti i governi israeliani, compresi quelli di Menachem Begin e di Yitzhak Shamir, hanno sempre accettato di non costruire nuove abitazioni nelle aree di Gerusalemme a maggioranza arabe. Potevano costruire solo in quelle ebraiche» ha detto Peres.Ora la parola finale spetta a Netanyahu. Obama vuole un riscontro scritto (e non più solo verbale, perché non si fida) alle 10 richieste fatte e lo pretende entro pochi giorni. Il cosiddetto Forum dei sette (i ministri più importanti della coalizione di governo) è spaccato: almeno quattro sono per rispondere picche a Washington e ricordano tutti i giorni a Netanyahu quali potrebbero essere le conseguenze di un cedimento alla pressione internazionale su Gerusalemme: la rottura della coalizione e probabilmente la fine della leadership del Likud con Benny Begin pronto a soppiantarlo. Altri tre ministri sono meno intransigenti. In particolare Barak, pressato dal suo partito perché si ritiri dalla coalizione aprendo le porte a una nuova maggioranza con i moderati di Kadima.Netanyahu è strattonato. C’è chi gli ricorda il suo passato di soldato coraggioso nei reparti speciali della famosa Sayeret Matcal. Chi invece punta a quello di diplomatico giovane e brillante a Washington. I suoi detrattori gli sbattono in faccia al contrario l’eccessiva emotività dimostrata da quando è entrato in politica e citano quell’impietoso giudizio di Ariel Sharon: «È un bambino viziato di Rehavia, nato con il cucchiaio d’argento in bocca», laddove per Rehavia si intende il quartiere chic di Gerusalemme dove Bibi ha sempre vissuto.Quel che è certo è che, dopo avere tanto meditato, ponderato i pro e i contro, interpellato intelligence e militari, chiamato a raccolta i suoi fedelissimi, alla fine l’unico che ascolterà sarà sempre papà Benzion, convocato di nuovo a cena prima della fatidica risposta a Washington.http://blog.panorama.it/, 6 aprile 2010

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