domenica 30 maggio 2010


dichiarazione indipendenza Israele

Rassegna stampa

Proviamo a mettere insieme, come se fossero pedine di una medesima scacchiera (ma non necessariamente dello stesso gioco), l’insieme degli elementi che abbiamo a disposizione, per stabilire se c’è una qualche coerenza tra fatti - o se è possibile inferire qualcosa dal raffronto tra di essi -, apparentemente molto diversi tra loro. Il primo rimando è quello alla cronaca spicciola, quella che passa tra le pieghe della quotidianità, il cui punto di forza è non solo l’essere il soggetto di storie apparentemente secondarie, ma il ripetersi con preoccupante costanza. Ancora una volta il movimento estremista Militia ha lasciato la sua firma, “recapitando” alla collettività due striscioni provocatori, esposti su un cavalcavia della tangenziale est di Roma. Il prevedibile contenuto sono scritte contro il sindaco della città Gianni Alemanno e il Presidente della Comunità ebraica Riccardo Pacifici nonché espressioni nostalgiche sull’inimitabile e imperituro «stile di vita» fascista. Ne fanno una cronaca stringata, ma sufficiente, Laura Bogliolo sul Messaggerov e Giulia Bertagnolio su E Polis Roma, mentre sia la Repubblica, nelle pagine romane, che il Giornale rimandano con brevi francobolli al fatto. Che è in sé del tutto secondario se non fosse la punta più delirante di un iceberg dentro il quale molte altre cose, tra di loro anche molto diverse, si tengono e trattengono. L’apologia del fascismo, peraltro mai venuta meno in quelle consistenti nicchie ideologiche e culturali che dal 1945 hanno continuato a riannodarsi a esso, trova oggi un’insperata opportunità di attualizzazione in una serie di circostanze che sdoganano le passioni trascorse, non tanto per rivalutarne un qualche improbabile trascorso politico, di impossibile riedizione, quanto per riproporne la dirompente carica simbolica, parte ineludibile della seduttività che i regimi totalitari hanno da sempre esercitato sulle grandi collettività. Non è un caso se il dispotismo moderno, quello esercitato su una massa di individui in qualche modo consenzienti, abbia trovato nei momenti di più intensa crisi economica il suo momento maggiormente fertile, riuscendo a incanalare le passioni e i risentimenti attraverso un linguaggio semplice, al limite del primitivismo, camuffato da amabile razionalizzazione dell’esistente. A esso si legava la promessa di un orizzonte migliore, fatto di conquiste e di glorie, nel nome di una identità uniforme, che si doveva imporre su tutti e a qualsiasi costo. Vanno allora riletti in chiave critica tutta una serie di eventi, tra di loro peraltro non connessi, ovvero non risultanti come il prodotto di una unica volontà, che tuttavia ci raccontano un po’ dello spirito del tempo corrente, all’insegna di una carica ambigua di fondo. Su Libero viene pubblicata, con un breve distico introduttivo della redazione, la lettera che Emanuele Fiano ha inviato al direttore della testata, polemizzando sul modo in cui viene offerta alla fruizione dei lettori una raccolta di discorsi di Benito Mussolini. Poiché, ed è la tesi dell’estensore dell’epistola, se parlare del fascismo nulla ha a che fare con la sua apologia, il lasciarlo parlare, senza alcuna contestualizzazione, è una impresa altamente pericolosa. Un po’ come maneggiare delle sostanze esplosive, capaci di combinarsi da sé e di produrre effetti ingestibili. La forza dei regimi totalitari sta, tra le altre cose, nel loro offrirsi come “spontanea” manifestazione di un “comune sentire”, quello più strettamente pulsionale. Si tratta del nocciolo della loro identità populista, che è parsa il più delle volte verosimile e condivisibile a molti dei contemporanei. Mussolini lo sapeva bene quando, parlando senza alcuno filtro (che avrebbe altrimenti innescato un qualche processo critico tra gli astanti), si riferiva alla sua capacità di interpretare, con la sua proverbiale verve oratoriale, l’«inconscio degli italiani», solleticandone i desideri inconfessabili e le passioni irrealizzabili. Il fascismo fu anche questo, un perverso sogno di grandezza, che si alimentava del senso di angustia di molti tra quanti, per molto tempo, lo “ascoltarono” con diligente identificazione, per poi rendersi conto, troppo tardi, che ne avrebbero subito dolorosamente le conseguenze dei suoi velenosi e mefitici frutti. In questo quadro, dove peraltro si inserisce anche l’accostamento operato - di sua sponte - dal Presidente del Consiglio, tra i vincoli del suo dicastero e quelli ai quali avrebbe soggiaciuto a suo tempo Benito Mussolini, vanno quindi sottoposte a un riflessione meno frettolosa due altre notizie coeve ma di segno esattamente opposto. Da una parte Fabio Perugia, su il Tempo, ci racconta del varo in sede capitolina del primo teatro dedicato ad Anna Frank. Nel testo dell’articolo è ribadito il sostegno diretto dei Isabella Rauti, moglie del sindaco di Roma Alemanno e consigliera regionale. All’attenzione (e all’identificazione) che una parte del mondo politico offre, con evidente sincerità, alle tragiche vicende e alle infinite sofferenze dell’ebraismo continentale nel corso del secondo conflitto mondiale, fa da contrappunto l’insofferenza che traspare nel trattare temi non solo congruenti ma direttamente connessi a quei fatti, che ne contestualizzano semmai i loro contenuti, rendendoli comprensibili agli osservatori di oggi offrendoci una ratio non solo umana ma anche politica e culturale del loro accadere. Ci riferiamo in particolare a quanto Alessandro Portelli, storico sociale di vaglia, grande conoscitore della Roma dell’occupazione nazista, narra su il Manifesto quando racconta della difficile situazione finanziaria in cui si trova il Museo della Liberazione di via Tasso. C’è come un gioco di contrappesi, da certuni rivendicato anche brutalmente come diritto ad una storia di parte, ovvero ad una ricostruzione del passato funzionale alle divisioni del presente, da altri mitigato nel giudizio sull’inesorabile trascorrere delle sensibilità, e sulla loro intercambiabilità morale ed etica, per il quale una cosa - prima o poi - escluderebbe l’altra. Poiché - ed è quello che molti pensano, anche se sono ben poco disponibili a riconoscerlo - la narrazione del passato è sempre partigiana e certe ricordi se appartengono ad una parte non possono essere i propri. Si tratta di una vera e propria lottizzazione della storia che è funzionale al suo uso strumentale e selettivo, secondo una logica che travolge non tanto il discorso storiografico (fin qui poco male, insomma) quanto la capacità di riflessione sul presente. Cristallizzandola dentro categorie mentali asfittiche che, proprio nel nome dell’avversione alla ideologia, la rivalutano come nuova forma di alienazione culturale. Il fascismo, come perdurante «stile di vita», si alimenta anche di questa polarizzazione, che riduce la complessità dell’esistente a una serie prevedibile di condotte, atteggiamenti e identità. E per avere un riscontro di buon senso sul piano delle riflessioni che andiamo facendo si legga la sempre puntuale «bustina» di Umberto Eco, anche questa settimana pubblicata da l’Espresso, dove l’autore risponde sagacemente alle affermazioni di Gianni Vattimo sul merito del boicottaggio nei confronti di Israele. Di boicottaggi parlano poi questa mattina anche Dimitri Buffa su l’Opinione e Flavia Fiorentino su il Corriere della Sera. Ripetendo quanto già aveva fatto ieri su altre testate, la Coop, nell’occhio del ciclone, pubblica oggi la sua presa di posizione per il tramite delle pagine del Sole 24 Ore. Mentre uno sguardo sulla dimensione internazionale ci è offerta da Gigi Riva sulla pagine de l’Espresso, dove ci si sofferma sull’evoluzione geopolitica della Turchia. Insomma, in quest’ultimo caso ancora di una scacchiera si tratta, ma qui il gioco, che c’è per davvero, rivelando un disegno piuttosto netto, pare destinato ad avere degli effetti molto netti e, forse, anche a breve. Claudio Vercelli, http://moked.it/

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