giovedì 3 giugno 2010
Appelli e controappelli - Quel che si vede da qui non si vede da lì
Seguo in questi giorni da Israele la polemica che si va sviluppando negli ambienti ebraici della Diaspora attorno agli appelli e ai controappelli (Jcall e seguenti), e i relativi inviti al supporto o all'astensione. Premesso che si possono vedere validi elementi e intenzioni in ogni posizione e assumo ovviamente la buona fede di ogni schieramento, nonostante ciò nella polemica scaturita c'è qualcosa che non convince. Non sono le tesi delle parti né le argomentazioni, ma è il metodo quello che non si capisce. Un metodo che risulta ancor più incomprensibile se visto da quaggiù, da Israele. Quale possa mai essere il motivo per cui i miei parenti e i miei amici e gli altri ebrei che non conosco, ma che il legame con lo Stato ebraico è intrinseco in loro, sentano il bisogno di spiegarci in questo modo - cioè con un appello rivolto a tutto il mondo - come dobbiamo fare per non mandare più i nostri figli a combattere, per non saltare in aria quando andiamo al mercato o peggio per non ricevere qualche missile sulla testa quando dormiamo: insomma cosa dovremmo fare per fare la pace con i nostri vicini. Certamente è giusto che ognuno esprima le proprie opinioni, e la dialettica è sempre stato il mezzo migliore per il progresso delle idee. Ma cercare di forzare le posizioni politiche di un paese con un appello pubblico, che è poi in fin dei conti una sorta di intimazione in nome della "democrazia" ad abbandonare (con riferimento a Jcall e simili ovviamente) la politica del governo eletto dal popolo in un paese - si spera - democratico, è altra cosa.Ciò è in qualche modo assimilabile a un conflitto condominiale (ben altra cosa rispetto alla sanguinosa diatriba mediorientale) in cui i parenti e gli amici di una delle parti formulino un comunicato mandato in copia al giudice (l'opinione pubblica mondiale e la stampa in questo caso) e all'altra controparte invitando il povero malcapitato a seguire una strada diversa da quella da lui scelta con il proprio avvocato, una strada più condiscendente e ragionevole "nel suo stesso interesse". Questo beninteso quando questi parenti e amici non solo non hanno in essere alcun dissapore con l'altro condomino e non sono costretti a sopportarlo giornalmente, ma non abitano neanche nel comprensorio, non pagano le spese dell'avvocato e non si faranno poi carico degli oneri processuali che deriveranno dal processo (salvo poi che il loro parente dovesse malauguratamente perdere la causa e la proprietà: non potrebbe più ospitarli nelle loro vacanze, o includerli come comproprietari, loro o i loro figli, in un futuro più o meno remoto e magari si ritroverebbe a battere alla loro porta come 'senza tetto' - ma è storia troppo poco immanente e poco può crucciarli).Nella vita di tutti i giorni i parenti e gli amici non si intromettono direttamente, prendono sì qualsivoglia posizione, spesso astenendosi ma anche discutendo animatamente con il congiunto, ma è difficile riscontrare casi come quello descritto sopra.E allora perché è così diverso l'intervento dei nostri parenti ed amici nel caso di Jcall da quanto si verifica normalmente? Perché uscirsene con un richiamo ufficiale alla politica israeliana, quando non esiste affatto un contrappeso che faccia pressioni simili sulla parte avversa, invitando anch'essa a una maggior condiscendenza? E allora perché richiamare, soprattutto, la parte amica?Errori ci sono stati, ci sono e sempre ci saranno nelle posizioni e nella politica di entrambe le parti. La soluzione auspicabile e definitiva, se pur si arriverà mai a essa, non potrà che essere una soluzione di compromesso che non soddisferà in toto nessuna delle due parti. Molte sono le strade percorribili per raggiungere una determinata meta, non sempre possono essere escluse a priori e spesso sono giudicabili solo a posteriori viste in prospettiva storica. Sarà veramente quella caldeggiata dai nostri parenti e amici la strada giusta?Prima di concludere vorrei far presente una situazione simile con i dovuti distinguo. Accadeva solo poco tempo fa, ma la direzione era opposta e gli echi sono ancora vivi. Il problema era relativamente più semplice: una discussione in famiglia, fra ebrei; eppure nella diaspora molti protestavano: "Cosa ne sanno loro in Israele del nostro ebraismo?", "come possono intervenire senza conoscere la situazione locale?". Così si lamentava la piazza romana a seguito di discussioni sulla kasherut per Pesach fra il rabbinato italiano e quello israeliano e le intromissioni di quest'ultimo. Invece non credo che Israele abbia mai redarguito pubblicamente, magari con una bella pubblicità sui giornali nazionali, le istituzioni ebraiche della Diaspora per le posizioni politiche o per il modo di gestire le loro diatribe con le istituzioni nazionali.In sostanza c'è una tendenza umana a intervenire, a prendere posizione e a spiegare agli altri cosa è bene che facciano, ma non bisogna dimenticare come si dice da queste parti che "quel che si vede da qui non si vede da lì".Alberto Lattes. http://www.moked.it/
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