sabato 4 settembre 2010


Aluf Benn

Una nuova scadenza: agosto 2011

L’effetto immediato dell’annuncio della ripresa di colloqui diretti fra israeliani e palestinesi è stato quello di stabilire una nuova scadenza nel calendario del Medio Oriente: agosto 2011. Questa, infatti, è la data entro la quale dovrebbero concludersi sia i negoziati su tutti dossier relativi allo status definitivo, sia il piano del primo ministro dell’Autorità Palestinese Salam Fayyad di creare uno stato palestinese “in progress”.Gli israeliani hanno un rapporto difficile con queste date-limite. Da una parte ne minimizzano l’importanza: “E’ da diciassette anni che trattiamo coi palestinesi e non ne è venuto fuori niente”. Dall’altra le temono, ben sapendo quanto queste scadenze tendano a creare aspettative irrealistiche destinate a restare deluse, finendo con l’aprire la strada a nuove “intifade”. Sono slogan che suonano bene nei dibattiti politici alla radio e in tv, ma la realtà è assai più complicata.Da quando furono firmati gli Accordi di Oslo sono trascorso diciassette anni, ma la fantomatica pace non è stata ancora raggiunta. Durante tutto questo periodo, comunque, dei veri negoziati sullo status finale hanno avuto luogo solo in due occasioni: una volta quando era primo ministro Ehud Barak; l’altra quando era primo ministro Ehud Olmert. Entrambi i round di colloqui per la soluzione definitiva sono duranti meno di un anno e hanno visto Israele avanzare proposte di pace che apparivano di vasta portata. In entrambi i casi, i leader palestinesi le hanno respinte come insufficienti. Ma le conseguenze sul terreno di quel rifiuto sono state assai diverse nelle due occasioni. Dopo che Yasser Arafat respinse la proposta avanzata da Barak a Camp David nel luglio 2000, si scatenò un bagno di sangue. Dopo che Mahmoud Abbas (Abu Mazen) respinse l’offerta di Olmert dell’estate 2008, non accadde niente. Furono anzi ben poche le persone che si resero conto che una proposta era stata avanzata.La differenza fra i due casi non sta nei dettagli degli accordi proposti, bensì nel livello delle aspettative: un decennio fa la gente era convinta che un accordo fosse “a portata di mano”; due anni fa, al contrario, i colloqui Olmet-Abu Mazen venivano visti come un inutile esercizio con l’unico scopo di far passare il tempo.Ciò che invece accomuna i due casi è che, tutte e due le volte, all’avvio dei colloqui era stata annunciata la scadenza di un anno. E tutte e due le volte le parti effettivamente si sono attenute alla scadenza. Le offerte di pace israeliane vennero presentate ai palestinesi dieci mesi dopo il summit che aveva dato inizio ai negoziati. Il concetto di data-limite si è dunque rivelato uno strumento utile efficace che ha spronato i leader.Benjamin Netanyahu inizia questo terzo round di negoziati sullo status definitivo con aspettative ancora più basse di quelle delle trattative di Olmert. I critici del primo ministro israeliano, sia dentro che fuori Israele, dicono che sta solo gettando fumo negli occhi della gente pur sapendo che, in realtà, non può concedere neanche un millimetro ai palestinesi: le posizioni che ha professato in passato, l’influenza del suo retaggio famigliare, la composizione della sua coalizione di governo: tutto ciò viene citato a riprova della critica contro di lui.Ma la situazione politica di Netnayahu è molto migliore di quella in cui si trovavano rispettivamente Barak e Olmert; e, d’altro canto, lui più di loro ha bisogno del supporto dell’amministrazione americana per via della crescente minaccia iraniana. Ciò sarà sufficiente per spingerlo a firmare un accordo su una soluzione “a due stati” come si è impegnato a fare all’inizio del suo mandato incarico?Il problema di Netanyahu è radicato nelle contraddittorie aspettative coltivate dalle due parti. Dal suo punto di vista, la creazione di uno stato palestinese dovrebbe “porre fine al conflitto”. Le sue controparti palestinesi fanno invece affidamento sulla dichiarazione diffusa dal Quartetto, secondo la quale l’accordo dovrebbe porre fine “all’occupazione iniziata nel 1967”. Sono due cose completamente diverse: i palestinesi e la comunità internazionale vogliono chiudere il capitolo iniziato con la guerra dei sei giorni; Netanyahu, come Barak prima di lui, vuole porre fine al conflitto iniziato decenni prima del 1967, e che va a toccare al cuore la definizione di sé che danno i due popoli.L’elemento chiave introdotto da Netanyahu nel processo è quello di esplicitare la richiesta che i palestinesi riconoscano Israele come “stato nazionale del popolo ebraico”. Cosa che i palestinesi hanno recisamente rifiutato. Dal loro punto di vista conviene continuare a considerare gli ebrei come conquistatori stranieri che hanno usurpato il paese espropriandone gli abitanti.Il totale disaccordo su questo punto è senz’altro foriero di problemi e difficoltà, ma paradossalmente offre anche un’opportunità. Nel prevedibile stallo fra la richiesta israeliana di riconoscimento e la richiesta palestinese di attuare il “diritto al ritorno” (di fatto: la negazione di quel riconoscimento), vi è lo spazio per un compromesso: entrambe le parti dovrebbero mettere da parte i dilemmi simbolici focalizzandosi piuttosto su un accomodamento pragmatico volto a suddividere la Cisgiordania fra due stati, che in seguito potranno continuare a polemizzare sulla giustizia e sulle rispettive narrazioni storiche.Se Netanyahu riuscirà a sopravvivere politicamente alla spinosa questione degli insediamenti e a stabilire una parvenza di fiducia con Abu Mazen, potrà mettere in conto mesi di negoziati riservati, lontani dai riflettori del pubblico: almeno fino alla scadenza della prossima estate.Sia o meno una coincidenza, agosto 2011 è anche il momento in cui si prevede che l’Iran sarà in grado di assemblare la sua prima bomba nucleare, stando all’intelligence americana. Senza dubbio quel mese sarà un momento molto interessante, quaggiù in Medio Oriente.(Da: Ha’aretz, 25.08.10), http://www.israele.net/

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