sabato 18 settembre 2010


Con Roth, a spasso nello zoo viennese

Quando la fuga da se stessi diventa una necessitàFu il più lucido giornalista-poeta della Mitteleuropa. Dalla nostalgia per lo shtetl della propria infanzia in Galizia, ai caffè di Vienna e Parigi, Joseph Roth ci racconta la vita e la morte di un mondo ashkenazita che non tornerà più "Un giorno, disperato perché ogni lavoro era del tutto incapace di soddisfarmi, divenni giornalista”. È lo stesso Joseph Roth a indicarci l’incipit della sua carriera giornalistica. Per una involuta ironia della sorte, lui, “Der Rote Joseph” (Joseph il rosso) come si firmava in calce ai suoi primi articoli apparsi nel 1917 sul quotidiano Der Abend e sul settimanale Der Friede, e dal 1919 su Der Neue Tag, lui che detestava “lo spirito da guida turistica che non tiene conto della mutevolezza del mondo”, finì con l’essere il più lucido cantore di un universo che stava precipitando verso l’inevitabile baratro. Il suo universo, di ebreo galiziano che conservava nel cuore le immagini della vita semplice e colorata dello schtetl, e quello dell’Austria Felix cancellata come potenza imperiale dopo la Prima Guerra Mondiale. Adelphi raccoglie oggi in due volumi, Al bistrot dopo mezzanotte e Il Caffè dell’Undicesima Musa, i suoi scritti giornalistici viennesi e parigini. Piccole cronache cittadine fotografate da un osservatore curioso e partecipe che si perde tra le strade e i caffè di due città-simbolo d’Europa. È pur vero che Roth si trovò nel posto giusto al momento giusto, avendo la nuova Austria un gran bisogno di cronisti capaci di raccontare i cambiamenti in atto. Cosa che Roth fece, trasferendo in quello che lui vedeva, e raccontava, ogni giorno, ciò che lui stesso aveva visto e vissuto: nella sua amata Vienna, nei suoi viaggi in Russia a seguito dei quali disse: “Sono partito bolscevico e sono tornato monarchico”, ai tavolini dei caffè e anche nei paradisi ragalatigli dai fumi dell’alcol che, come confessava, gli rendevano la vita più facile. E del resto, ne fa cenno l’amico e scrittore austriaco Stefan Zweig (autore di quel Mondo di ieri che testimonia il dolore senza ritorno di tanto ebraismo mitteleuropeo), Roth era certo di conoscere il mondo solo quando scriveva. Un esercizio letterario che talvolta sconfinava nell’osservazione scientifica tipica di un entomologo. Non è un caso che lo zoo viennese diventi la metafora della società austriaca dove la casa delle scimmie è chiusa per ferie parlamentari, che lo struzzo abbia piume meno belle di quelle della signora all’ingresso e che i pappagalli siano bambinaie.Con Roth, le vicende quotidiane diventano metafora di eventi ben più grandi. Ai tavoli dei caffè, “l’aria è satura di bollettini di guerra provenienti dalle conferenze di pace” scrive. Mentre al mercato nero, oltre alla vendita di tabacco dell’Erzegovina, turco, persiano ed egiziano, ci sono le camicie, le lenzuola, e la misera tabacchiera del marito che le donne vengono a vendere per rimediare una dozzina di uova. Eccola, la decadenza di Vienna, e dell’Europa tutta.I fumi dell’alcol non tolgono a Joseph Roth lucidità. Non quando descrive i ritratti da quattro soldi che gli italiani hanno fatto di Mussolini. Non quando ironizza sui filmati da venti minuti mandati sul grande schermo della città: venti minuti in cui si ride a crepapelle, in cui si passa dalla pergola alla trincea, all’elmetto d’acciaio, alle maschere antigas. Venti minuti prima del baratro.La lucida comprensione della realtà permane anche quando si abbandona alla nostalgia del mondo di ieri. Anche quando, in viaggio tra le Città Bianche della Provenza, sembra ritrovare la dolcezza della propria casa, e capisce che la nostalgia è “ciò che di più prezioso una patria può donare”. E la nostalgia per “un tempo dove in primavera si girava per i boschi a mangiare le fragole” (Fragole, Adelphi), per un paese in cui le genti conversavano in tutte le lingue della popolazione, e dove in settembre le foglie cadevano senza che nessuno le spazzasse via (“solo in Europa Occidentale ho visto raccogliere l’autunno con la ramazza” scrive), va a braccetto con una rassegnata sfiducia verso la modernità. La modernità delle lampade di acetilene definite ironicamente come “l’ultima conquista dei caffè viennesi”, della proletarizzazione delle case venute su in due settimane, dell’ombra nera dei grattacieli americani sopra Parigi, e la modernità di un pubblico che “si crede internazionale solo perché paga in valute diverse”.Ogni attacco alla “società moderna” è in realtà un soffocato grido di dolore per la perdita dello shtetl, di un mondo protetto dove non c’era neppure bisogno di documenti d’identità e che offriva ai singoli individui un cordone ombelicale con la totalità della vita. Il grande mosaico etnico-linguistico asburgico in cui Roth era cresciuto rappresentava per lui, come per altri famosi scrittori austro-tedeschi degli anni Venti/Trenta (Karl Kraus, Herman Broch, Robert Musil e Franz Werfel), un assoluto ideale di vita. Dopo la distruzione di questo ideale, come altri esuli incontrati a Parigi (tra il 1933 e il ‘39 passarono il Reno circa 55mila ebrei tedeschi), e come i personaggi descritti negli articoli e nei romanzi, anche Roth è “solo” sopravvissuto. La sua compassione, insieme al suo interesse letterario, è tutta per le vicende degli ebrei dell’Europa centrale, costretti dal crollo della monarchia austro-ungarica a emigrare verso l’Occidente europeo e gli Usa, e a contaminare la propria cultura fino a rischiare di perderla: proprio come i figli degli esuli parigini che non parlano più yiddish ma francese. Anche per questo, come afferma Ladislao Mittner, nonostante le sue simpatie cattoliche, Roth rimane “il più compiutamente ebreo” degli scrittori di lingua tedesca. Esule tra gli esuli. Superstite tra i superstiti. “In un solo minuto da quello che ci separava dalla morte abbiamo rotto con l’intera tradizione, con la lingua, con la scienza, con la letteratura” scrive. Una perdita d’identità che in parte spiega le tante personalità e biografie contraddittorie di Roth. “Conosco la libertà di non mostrare nulla più di me stesso” scrive. Lui che in Germania viene notato solo se recita una parte, lui che “non rappresenta nulla, nessuna stirpe, nessuna nazione, nessuna razza” e che deve comunque cercare qualcosa da rappresentare e spacciarsi per quello che non è. Il Roth comunista a Vienna diventa un monarchico austriaco e conservatore tra gli esuli di sinistra rifugiatisi a Parigi. Nella prefazione del suo ultimo romanzo scrisse che si riconosceva in quella monarchia cattolica che gli aveva permesso di essere “contemporaneamente un patriota e un cittadino del mondo”, ma nelle pagine del suo capolavoro incompiuto ancora ci ammonisce: “La mia parola è ben lontana dall’essere una confessione, la mia menzogna non è mancanza di carattere”. Perché la fuga, anche da se stessi, talvolta è una necessità. Come talvolta, per ritrovare la propria strada, bisogna perderla. Forse questo è l’insegnamento di Roth. Profeta, sognatore e lucido cantore della Finis Austriae che morì a Parigi nella primavera del ‘39, in un ospedale per poveri in seguito al troppo alcol. L’amico romanziere Moma Morgenstern si oppose ai funerali con la croce cattolica. Non ci riuscì. E così arrivarono anche le corone di fiori degli Asburgo, i cuscini rossi comunisti, gli omaggi dei gruppi di monarchici, dei cattolici e degli ebrei. Fu così che colui che pensava di aver perso le proprie radici le aveva ritrovate. Tutte insieme. Mimosa Salmin , http://www.mosaico-cem.it/

Nessun commento: