domenica 3 ottobre 2010



Ehud Barak

Se sinistra diventa una parolacciaPochi deputati e iscritti, poche idee: crisi del Labour israeliano

(Chiedo ai miei lettori israeliani un commento. Grazie Chicca)
Un risvolto tutto interno dei negoziati di pace israelo-palestinesi è il loro peso sul futuro della sinistra in Israele, sopratutto sulla sinistra “di governo” rappresentata dal partito laburista (Avoda) di Ehud Barak. Nel panorama politico israeliano le linee di demarcazione ideologica tra la sinistra e la destra sono molto labili, la vera discriminante è sempre stata, però, l’adesione alla cosiddetta soluzione dei due stati, per cui si considerano di sinistra i partigiani del negoziato con i palestinesi e di destra i suoi oppositori.Il Labour, in particolare, è stato identificato per decenni come il partito del negoziato e della pace e finora i tentativi più consistenti di arrivare ad una soluzione del conflitto con i palestinesi (gli accordi di Oslo nel 1993 e il negoziato di Camp David nel 2000) si devono ai governi a guida laburista.Netanyahu ha sconvolto queste coordinate politiche accettando di sedersi al tavolo dei negoziati con il presidente dell’autorità palestinese Mahmud Abbas e di far propria la soluzione di due stati per due popoli contro la quale si era battuto in campagna elettorale.I laburisti si trovano oggi relegati al ruolo di junior partner e non possono gestire direttamente il processo negoziale, ma il solo fatto che tale processo sia stato avviato può gettare una luce nuova sulla loro controversa partecipazione alla coalizione governativa. Salvare il processo di pace può significare per il partito di Barak salvare la propria credibilità dando un senso alla propria presenza nel governo. Il successo del negoziato potrebbe divenire la forza propulsiva per far uscire il Labour dal baratro di una crisi di dimensioni storiche.Le elezioni del 2009 hanno infatti segnato un drastico ridimensionamento della sinistra israeliana.Non solo la sinistra parlamentare è stata spazzata via dalla scena politica da un potente vento conservatore, ma ha anche perso il suo tradizionale ruolo guida nel campo dei fautori del negoziato a favore dei centristi di Kadima. La decisione di Barak di entrare a far parte del governo Netanyahu, un governo dominato da nazionalisti e ultraortodossi, ha minato fortemente la credibilità del partito e della sua classe dirigente e contribuito ad approfondire la crisi di identità di una sinistra che, in Israele, “non c’è”. Non c’è a cominciare dai numeri: nel 1992 il partito di Rabin poteva contare su 44 parlamentari, nel 2001 si erano ridotti a 26, oggi Avoda con i suoi 13 (sui 120 della Knesset) è ai minimi storici e i più recenti sondaggi lo danno sotto il 10 per cento dei consensi. Di pari passo l’emorragia degli iscritti, il cui numero si aggirerebbe intorno ai 30mila, dimezzati rispetto ai 60mila che parteciparono alle primarie del 2008. Un’identica parabola definisce il percorso dell’altro partito della sinistra, Meretz, erede del Mapam, primo partito sionista a impegnarsi per una pace giusta con i palestinesi, che nel 1992 partecipò con i suoi dodici parlamentari al governo Rabin giocando un ruolo attivo nella trattativa per gli accordi di Oslo e oggi è, con i suoi tre deputati, un “partito di nicchia” assolutamente irrilevante politicamente.Ma la sinistra israeliana non c’è anche perché la sua base elettorale si è inesorabilmente erosa a causa dei cambiamenti che hanno investito la struttura della società israeliana negli ultimi anni. Il milione di immigrati dagli stati dell’ex Unione Sovietica, che rappresenta il 17 per cento dell’elettorato israeliano, è impermeabile al discorso politico della sinistra, così come quella parte crescente della popolazione di orientamento religioso o addirittura ultraortodosso. Anche tra gli arabi israeliani la sinistra ha perso consensi: se nel 1992 il 20 per cento votava per il Labour, solo il 4,3 per cento lo ha fatto nel 2009. Incapace di parlare a queste categorie la sinistra ha visto da una parte i temi che le sono cari, giustizia sociale, diritti umani, il negoziato di pace con i palestinesi, perdere ogni rilevanza rispetto al tema della sicurezza nazionale, dall’altra è apparsa esitante e contraddittoria proprio quando si trattava di porre l’accento su questi temi.È il caso dell’operazione Cast Lead (Piombo fuso) nella striscia di Gaza, decisa da un governo di centro sinistra in cui Barak era il ministro della difesa e che non ha praticamente incontrato alcun tipo di opposizione interna. Gideon Levy ha scritto qualche tempo fa su Hareetz: «Se gli israeliani non hanno protestato durante l’operazione piombo fuso a Gaza alla fine del 2008 vuol dire che in Israele non esiste un vero movimento di pace».Ed è il caso della partecipazione dei laburisti alla coalizione governativa di destra, che ha provocato un infuocato dibattito all’interno del partito e convinto molti della doppia morale dei dirigenti di Avoda, ineluttabilmente destinati ad avallare, come membri del governo, una politica contraria alle loro promesse elettorali. Così se il populista Liebermann boicotta apertamente il processo di pace persino davanti all’Assemblea Generale dell’Onu, a Barak non resta che annunciare che «le dichiarazioni del ministro degli esteri non riflettono la posizione del Partito laburista» senza nessun potere reale sulla direzione della politica governativa.La parola “leftist” è arrivata ad avere nel contesto israeliano una connotazione prevalentemente negativa, a equivalere a un insulto. Da qui il tentativo coraggioso ma, secondo alcuni osservatori europei alquanto ingenuo, di riportare in vita una “national left”, una sinistra che sia anche nazionale, che non lasci alla destra il monopolio e l’iniziativa su temi quali la sicurezza e la questione palestinese. Il manifesto programmatico della National Left, un movimento nato nel 2009 su impulso degli attivisti Elad Yaniv e Shmuel Hasfari, descrive con realismo la crisi di identità della sinistra israeliana, ma la cura che propone in fondo è un ritorno al patriottismo e ai valori dei pioneri del socialismo israeliano.Sul campo restano le organizzazioni pacifiste come Peace Now e B’Tselem i cui membri continuano a manifestare e ad agire per i diritti dei palestinesi e per una pace equa. Ma la piazza è vuota. Domenica scorsa erano poche dozzine a un sit in organizzato davanti alla residenza di Netanyahu a Gerusalemme per chiedere senza successo al premier di prolungare la moratoria sulle costruzioni negli insediamenti della Cisgiordania.Lucia Stella 1 ottobre 2010, http://www.europaquotidiano.it/

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