lunedì 4 ottobre 2010
Netanyahu: “il terrorismo non bloccherà la pace”
Al via i nuovi negoziati.Al via i nuovi negoziati. Che vedono tutte le forze in campo unite in funzione anti-Iran. A condurre le danze è il Ministro della Difesa Ehud Barak che cerca una soluzione “creativa” con un piano di pace che ai partiti religiosi alleati non piace affatto. Non c’era palpitazione nell’aria -né in Israele né in Cisgiordania- quando, all’inizio di settembre, il premier Benyamin Netanyahu e il presidente palestinese Abu Mazen si sono incontrati a Washington per rilanciare i negoziati bilaterali di pace. Nelle intenzioni degli ospiti americani entro dodici mesi dovrebbe essere raggiunto un accordo di pace, da realizzarsi negli anni a venire. Quasi le medesime parole erano state pronunciate ad Annapolis dal predecessore di Netanyau, Ehud Olmert, e dallo stesso Abu Mazen. Correva il novembre 2007: “Il 2008 -fu solennemente proclamato allora- sarà l’anno della pace”. E invece anche quell’appuntamento con la storia era destinato a slittare. Entrambi i popoli concordano su un punto almeno: ossia che le posizioni reciproche sono oggi talmente distanti, dal rendere poco credibile che i rispettivi leader attuali -che non sono esattamente trascinatori di folle e che si basano su coalizioni interne che lasciano a desiderare-, che insomma Netanyahu ed Abu Mazen possano siglare una intesa di lungo termine. Allo stesso tempo lo status quo, per israeliani e cisgiordani, non è malvagio. Gli uni e gli altri attraversano una congiuntura economica favorevole, le disponbilità familiari crescono, la sicurezza nazionale e personale è soddisfacente: certamente se paragonata ai primi anni di Intifada. Gaza fa ormai una partita a sé: ma per i palestinesi della Cisgiordania lo status quo ha portato nuovi centri commerciali, l’avvio della costruzione di una città moderna e tecnologica (Rawabi, a nord di Ramallah), un declino della violenza politica e della criminalità. Tutto ciò grazie anche alla “Forza Dayton”, unità di pronto intervento addestrate da un generale americano con la cooperazione attiva dell’esercito giordano. È la carta principale che Abu Mazen gioca, per tenere sotto controllo le attività insurrezionali di Hamas, specialmente nella rete di moschee e di associazioni di beneficenza islamiche. Il rischio di un putsch islamico analogo a quello del 2007 a Gaza è tangibile ed il presidente dell’Anp cerca di giocare di anticipo, anche se talvolta organizzazioni umanitarie storcono il naso di fronte a retate e ad arresti preventivi. Ma se lo status quo è accettabile nel breve termine, perché organizzare una conferenza di pace a Washington? Perché rischiare che un fallimento provochi una reazione a catena di delusioni, violenze, destabilizzazione? Perché la partita è ormai più ampia. Perché israeliani e palestinesi sono nella stessa barca assieme con l’Egitto, la Giordania e con le forze arabe pragmatiche, impegnati ad arginare i “venti iraniani’’ che spirano con foga dalla mini-repubblica islamica di Gaza fino al Libano degli Hezbollah, dall’Iraq allo Yemen. E l’influenza iraniana è sempre più avvertibile anche a Damasco e ad Ankara. Un accordo, anche parziale, anche simbolico, fra Netanyahu ed Abu Mazen servirebbe a dimostrare che le forze moderate hanno ancora una loro vitalità. Chi si oppone, chi plaudeAnche se non ama esprimersi in pubblico, proprio Benyamin Netanyahu (e il suo stretto alleato, il Ministro della difesa Ehud Barak) sembra comprendere l’importanza del momento non solo per i diretti interessati, ma anche per gli Stati Uniti. A Washington si è visto un Netanyahu diverso dal passato: pronto a far sua la formula dei due Stati per i due popoli; impegnato a cercare di gettare le basi “di una pace duratura, per le prossime generazioni”; convinto che Abu Mazen sarà per lui “un partner di pace”. E, con un certo scorno dei suoi sostenitori, riferendosi alla Cisgiordania ha parlato di “West Bank”, non di “Giudea-Samaria”. Quando poi sono giunte le notizie di un attacco armato di Hamas contro un’automobile di israeliani a Hebron ha ribadito che “episodi di terrorismo non bloccheranno il processo di pace’’. Parole che riecheggiavano il premier laburista Yitzhak Rabin. Uno squarcio sugli umori israeliani è stato anticipato da Barak al giornalista Ari Shavit di Haaretz. “Occorre puntare a due Stati per due popoli, occorre tracciare una linea di confine entro la Terra di Israele che ci garantisca una solida maggioranza ebraica, al di là della quale ci sia uno Stato palestinese smilitarizzato ma dotato di vitalità politica ed economica… Conserveremo le zone omogenee di insediamento (in Cisgiordania, ndr), ma gli abitanti delle colonie isolate dovranno rientrare in Israele o nelle aree omogenee. La soluzione dei profughi palestinesi avverrà solo all’interno dello Stato palestinese o mediante una loro riabilitazione all’estero”.Barak ha anche toccato due tasti dolenti. Il primo riguarda la valle del Giordano, dove dovrà restare a lungo una presenza militare israeliana per prevenire possibili attacchi da Est. Il secondo riguarda Gerusalemme est: dodici rioni ebraici (200 mila abitanti) dovranno essere a suo parere uniti con la già ebraica Gerusalemme ovest. Ma i rioni arabi (250 mila abitanti) dovranno far parte della entità palestinese. Uno statuto speciale dovrà essere definito a suo parere per la Città Vecchia e il per il “Santo bacino” che include lo storico cimitero ebraico del Monte degli Ulivi e gli scavi archeologici della Città di David (incuneati nel rione palestinese di Silwan). Con questa intervista Barak ha comunque messo in luce uno dei maggiori problemi del negoziato: ossia che non esiste una posizione in cui il governo di Netanyahu si riconosce. La spartizione di Gerusalemme, ad esempio, resta eresia nel Likud. Da parte sua il fondatore del partito religioso Shas, rabbino Ovadia Yossef, prima della apertura dei negoziati, ha pubblicamente auspicato “la perdizione” del popolo palestinese. “Che si estinguano i nostri nemici e coloro che ci odiano -ha detto il rabbino in un sermone pronunciato in occasione del Capodanno-, che periscano Abu Mazen e tutti gli altri scellerati’’. Anche un’altra componente della coalizione di Netanyahu, Israel Beitenu, rema contro. “Non ci sarà alcun accordo, né entro un anno né entro una generazione”, ha previsto il suo leader, il Ministro degli esteri Avigdor Lieberman che, per coerenza, alla cerimonia di Washington non si è nemmeno fatto vedere.È evidente che, se vorrà arrivare al traguardo, Netanyahu dovrà cambiare i cavalli in corsa e cercare dunque di sostituire Shas ed Israel Betenu con i centristi di Kadima. Facile a dirsi, ma molto complesso da realizzarsi vista anche la repulsione reciproca fra Netanyahu e la leader di Kadima, Tzipi Livni. Nell’immediato, il primo ostacolo è rappresentato dalla richiesta palestinese di proseguire il congelamento della colonie ebraiche (che dovrebbe terminare a fine settembre) per la durata dei negoziati. Buona parte del Likud, Shas, Israel Beitenu si oppongono. Barak e Netanyahu pensano che si possa trovare una formula “creativa”. Nel frattempo va seguito con attenzione il premier dell’Anp, Salam Fayad. Scettico circa la possibilità di trovare con Israele una intesa di lungo respiro, anche lui ha disertato il vertice di Washington. Era peraltro impegnato nella sua strenua attività di gettare in Cisgiordania le basi economiche e politiche del futuro Stato palestinese. Una impalcatura che a suo parere va creata dall’interno, con pazienza. Fino al giorno in cui tutto sarà pronto per proclamare unilateralmente al mondo la nascita di uno Stato palestinese, entro confini provvisori.Un approccio che per ora Netanyahu asseconda, anche se dischiude la prospettiva poco entusiasmante della costituzione in definitiva di uno Stato palestinese, senza alcun accordo di pace che metta fine al conflitto con Israele.Aldo Baquis, da Tel Aviv http://www.mosaico-cem.it/
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