mercoledì 15 dicembre 2010


La determinazione di Netanyahu sembra quella del vecchio Sharon

Washington. E se Netanyahu facesse sul serio? Se l’uomo che in campagna elettorale dichiarava di non vedere differenze tra l’insediamento ebraico di Beit Ariel e Gerusalemme subisse un metamorfosi ? Se i coloni che lo hanno votato in massa fossero presto costretti a maledirlo, come accadde con Ariel Sharon?E’ un interrogativo che deve frullare nella mente di Danny Dayan. Non a caso il presidente dello Yesha Council, dove Yesha sta per Giudea, Samaria e Gaza, ha “accompagnato” Benyanin Netanyahu nel suo viaggio statunitense. Si è accampato al Mayflowers di Washington, l’hotel del premier e della sua delegazione, ha rilasciato una raffica di interviste battendo sempre lo stesso tasto: “Inopportuno per Netanyahu partecipare a carnevalate di pace alla Casa Bianca mentre i terroristi uccidono civili innocenti in Israele”.Netanyahu non si è scomposto e ha tirato dritto per la sua strada. Il premier anzi ha lanciato segnali che sembrano preannunciare un divorzio, o almeno una marcia di allontanamento, dalla sua ideologia.. Nei briefing con i suoi più stretti collaboratori, ha detto che dopo due ore di faccia a faccia con Abu Mazen, senza la presenza di testimoni, ha concordato col presidente palestinese incontri “frequenti e possibilmente discreti”, perché “non c’è modo migliore che parlarsi a quattr’occhi per accorciare le distanze”. Ha stupito alcuni dei suoi interlocutori mostrandosi sinceramente convito che è possibile trovare una soluzione ad un conflitto storico.E’ vero, ha concesso, che lo scetticismo si nutre di quasi 20 anni di insuccessi, ma la realtà è dinamica, nei Territori palestinesi, la pace economica sta producendo frutti, l’ora dell’accordo potrebbe essere scoccata. Ha posto l’accento sui due pilastri che a suo avviso dovrebbero sorreggere una pace “che duri generazioni”. Il primo: accordi di sicurezza draconiani, più stringenti di quelli sottoscritti dal suo predecessore Olmert con Abu Mazen. La realtà è cambiata, ha sottolineato il premier. L’Iran ha trasformato in basi terroristiche Gaza e il sud del Libano. Bisogna scongiurare il rischio che anche la futura Palestina subisca la stessa sorte. Il secondo pilastro è costituito dal riconoscimento della natura ebraica dello Stato di Israele. In altre parole, Abu Mazen deve compiere “scelte coraggiose e molto difficili”: spiegando al suo popolo che i rifugiati potranno tornare in territorio palestinese, non inondare Israele. Chi ha ascoltato Netanyahu, ne ha ricavato l’impressore di una determinazione senza precedenti ad esplorare la possibilità di un accordo. L’ottimismo sarebbe fuori luogo. Di certo non lo coltivano né alla Csa Bianca né al Dipartimento di Stato. Le difficoltà di arrivare ad un compromesso sono portentose. Con la pistola iraniana di Hamas puntata alla tempia, i margini di manovra di Abu Mazen sono estremamente limitati. E Netanyahu ha partner di governo pronti ad abbandonarlo se lo status quo venisse messo seriamente in discussione.La strada è in salita e la controversia sul congelamento degli insediamenti è un reale scoglio. Abu Mazen, che ne aveva fatto una precondizione per accedere ai negoziati, è stato costretto ad un imbarazzante passo indietro quando il presidente Obama, che inizialmente aveva sposato la richiesta palestinese, l’ha derubricata a questione che andava affrontata nel negoziato, non prima. Ora però che il caldo opprimente dell’estate di Washington lascia il posto all’uragano fuori stagione di Herl, il nodo degli insediamenti rischia di strangolare ben prima di un anno il fragile processo di pace. I membri della delegazione palestienese, prima di lasciare la capitale americana, hanno confermato che Abu Mazen abbandonerà il negoziato se alla scadenza della moratoria israliana, il 26 settembre, le costruzioni riprenderanno, come Netanyahu ha sempre detto.Una bomba ad orologeria che gli Usa intendono disinnescare. Se esplodesse, Obama ne pagherebbe immediate conseguenze, a poche settimane delle elezioni di mid term che già si annunciano un disastro. Hillary Clinton e George Mithcell lavorano ad una ipotesi. Un’intesa rapida sul meno controverso dei nodi, i confini, con via libera palestinese alle costruzioni nei grandi insediamenti che Israele intende annettere in cambio di equivalenti porzioni di territorio.

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