venerdì 10 dicembre 2010


Nel Sinai di Mubarak c'è ancora posto per gli schiavi (e gli eritrei lo sanno)

"Certamente non è sbagliato sparargli, è necessario farlo. Per trovare un accordo con un infiltrato, puoi solo fare fuoco", così il Generale Muhammad Shousha, il governatore del Sinai dei Nord, parlando di immigrazione nel democraticissimo Egitto. E sì perché il problema del Sinai, la penisola a lungo contesa fra Egitto e Israele, non è solo quello delle bande di predoni beduini che perso ogni esotismo si sono ridotte a mercati di schiavi, bensì il modo di affrontare la questione della immigrazione da parte del faraone Mubarak.Dieci anni orsono, con la fine della guerra fra Etiopia ed Eritrea, e il divampare del genocidio in Darfur e del conflitto nel Sud Sudan, migliaia di profughi eritrei e sudanesi sono fuggiti dai loro Paesi in cerca di rifugio in Europa; una terra promessa dov'è sempre più difficile arrivare. Non solo per colpa delle politiche securitarie che intanto prendevano piede nel Vecchio Continente, ma anche perché sul percorso dei migranti s'incontrano i campi di concentramento libici e l'amaro deserto egiziano.L'Egitto ha lasciato che il Sinai si trasformasse in un luogo schizofrenico, paradiso del turismo internazionale macchiato da sanguinosi attacchi terroristici e crocevia dei cartelli criminali che gestiscono la tratta di carne umana per l'Europa. Nel momento in cui la Libia dichiara guerra a profughi e rifugiati, per arrivare in Europa bisogna passare dal confine israeliano. E Israele oscilla fra apertura e chiusura, la memoria della Diaspora e la paura di perdere la propria identità, la costruzione di nuovi muri e le parole di accoglienza del Nobel Wiesel.Nel 2007, quando sudanesi ed eritrei cominciano ad arrivare in sempre più gran numero nello stato ebraico, Gerusalemme dà il via a una politica di rimpatrio forzato dei clandestini (o erano rifugiati?) verso l'Egitto. Contemporaneamente, iniziano le "sparizioni" in territorio egiziano. Nel 2005, durante un "incidente", qualche dozzina di africani viene massacrata dalla polizia. Fra il luglio del 2007 e l'ottobre del 2008, circa 33 migranti vengono uccisi nel Sinai, 60 dal marzo del 2010. Roba da far impallidire Ciudad Juarez e la frontera fra Messico e Usa.Le morti di questi giorni, gli schiavi dei predoni beduini rinchiusi nei container a morire di fame, non sono una novità per il governo egiziano, che ha fatto davvero molto poco per evitarle. Testimonianze di migranti sfuggiti all'arresto delle autorità locali raccontano di acqua bollente versata addosso ai prigionieri, bastonate su donne e bambini, insulti tipo "sei un ebreo" o "sei un nemico degli arabi e dell'Islam", visto che nella propaganda abilmente coltivata al Cairo è opinione diffusa che gli africani raggiungono Israele per rubare il lavoro agli arabi nei cantieri o nell'agricoltura.Qualche decennio fa Israele si è ritirata definitivamente dal Sinai. Oggi lo stato delle relazioni con le forze di sicurezza egiziane al confine è decente, considerando gli standard diplomatici con il resto del mondo arabo-musulmano. E' dunque arrivato il momento di mandare un messaggio preciso a Mubarak: il faraone deve stanare e contrastare le bande dei trafficanti di uomini se vuole evitare nuovi muri con il suo potente vicino. Israele, da sola, può poco. La comunità internazionale dorme. Ad esclusione di Benedetto XVI quasi nessuno sembra è interessato al dramma degli ostaggi nel Sinai. L'UNHCR, l'agenzia per i rifugiati delle Nazioni Unite, si limita a dire che "siamo in contatto con il governo egiziano sulla questione". Dov'è l'immancabile commissione d'inchiesta dell'Onu? 9 Dicembre 2010, http://www.loccidentale.it/

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