mercoledì 22 dicembre 2010


Un film immagina la fine di Israele. Il regista: La colpa sarà nostra

La donna indica l’orizzonte sul mare ed è come una linea tracciata per depennare quella terra che non è più la sua. Dice di poter avvistare la torre della vecchia centrale elettrica a Tel Aviv, la casa di famiglia stava là dietro, i quartieri eleganti a nord della città. E’ il 2048, sono passati cent’anni dalla fondazione di Israele e Israele non esiste più. Leo Amizur-Coehn è una rifugiata, ha scelto di fermarsi a Cipro, perché un giorno spera di poter tornare, in mezzo c’è solo il Mediterraneo da attraversare. Gli altri israeliani sono sparsi per il mondo: in Australia il rabbino che sta scrivendo un nuovo capitolo della Bibbia, il bibliotecario a Berlino che cura il memoriale della cultura sionista, la sabra che ha aperto un ristorante in Canada e legge tra le lacrime la lettera del fratello: «Siamo stati noi a distruggere quello che nostro padre aveva costruito» . Il «noi» è collettivo e frammentato: la destra, la sinistra, gli ultraortodossi, gli edonisti/egoisti. Da che parte stia davvero la colpa resta offuscato, perché Israele sia scomparsa e al suo posto sulla mappa si trovi la Nuova Repubblica Araba è quasi un enigma. Il film 2048 e il regista Yaron Kaftori, 47 anni, non danno risposte: un testimone accenna al pericolo della Bomba (l’Iran?), un altro alla violenza (non si sa se interna o esterna), lo studioso incolpa il crollo del sistema educativo. A budget minimo (anche la diva Gila Almagor ha il memoriale della cultura sionista, la sabra che ha aperto un ristorante in Canada e legge tra le lacrime la lettera del fratello: «Siamo stati noi a distruggere quello che nostro padre aveva costruito» . Il «noi» è collettivo e frammentato: la destra, la sinistra, gli ultraortodossi, gli edonisti/egoisti. Da che parte stia davvero la colpa resta offuscato, perché Israele sia scomparsa e al suo posto sulla mappa si trovi la Nuova Repubblica Araba è quasi un enigma. Il film 2048 e il regista Yaron Kaftori, 47 anni, non danno risposte: un testimone accenna al pericolo della Bomba (l’Iran?), un altro alla violenza (non si sa se interna o esterna), lo studioso incolpa il crollo del sistema educativo. A budget minimo (anche la diva Gila Almagor ha accettato di recitare senza compenso), i cinquanta minuti sono costruiti come un falso documentario: il protagonista scopre un video girato dal nonno nel 2008, le celebrazioni per il sessantesimo anniversario dalla nascita dello Stato ebraico. Queste immagini sono reali, la camera di Kaftori inquadra gli israeliani davanti al fumo del barbecue (è il piatto semiufficiale per Yom Haatzmaut, il giorno dell’Indipendenza) mentre rispondono alla domanda: come sarà il centesimo compleanno? Alla cineteca di Tel Aviv, il film è stato presentato il 20 di luglio, quando quest’estate è caduta Tisha B’Av, la data in cui gli ebrei commemorano la distruzione del primo e del secondo tempio. 2048 immagina lo sfacelo del terzo. «In passato non avevo dubbi: questo Paese è sicuro, forte» , dice il regista, che aspetta una risposta dal Festival di Berlino, dove nel 2004 ha presentato Out of the Forest, il documentario sugli eccidi perpetrati dai lituani e dai polacchi contro gli ebrei durante la Seconda guerra mondiale. «Al compimento dei 60 anni nazionali, ho cominciato a chiedermi se non stiamo correndo nella direzione sbagliata» . Fa l’esempio degli incidenti stradali, considerati dagli israeliani una delle piaghe più gravi. «Nessuno prende la responsabilità su di sé, continuiamo a guidare male o troppo veloce, ubriachi o con le auto scassate, perché abbiamo preferito trovare una scorciatoia al momento del tagliando obbligatorio» . Il nonno di Kaftori è uno dei fondatori del kibbutz Mizra, famoso per la produzione di pancetta, salami e prosciutto (tutti proibiti dalla religione ebraica). Il bibliotecario di Berlino rappresenta nel film il rimpianto per la vita collettiva dei pionieri, il sionismo laico di Theodor Herzl o David Ben-Gurion. «Il problema è che non esistono più obiettivi comuni, la società è frammentata, ogni gruppo va in una direzione diversa — continua il regista —. Non ci sono leader in grado di prendere decisioni, l’ultimo è stato Yitzhak Rabin. Gli esempi del declino? La spaccatura tra laici e religiosi, il modo in cui trattiamo i lavoratori stranieri (sudanesi o cinesi), la corruzione, il materialismo, il crimine organizzato. Prima c’erano delle linee rosse, che pensavamo non sarebbero mai state oltrepassate. Ripetevamo: qui non succede...» . Nella Città Vecchia di Gerusalemme, Nuova Repubblica Araba, un palestinese vende memorabilia, divise di Tsahal e magliette con stampato il volto dall’occhio bendato di Moshe Dayan. Consiglia al giovane documentarista di visitare il cimitero Trumpeldor a Tel Aviv, che lui vorrebbe aprire ai turisti (gli ex israeliani). Tra le pietre bianche e il secco degli ulivi, il ragazzo ripete le parole del nonno, che chiudono 2048 come l’epitaffio su una lapide: «Pensa a Mosé, mi diceva. E’ vissuto fino a quando voleva andare da qualche altra parte. La tua vera casa è dove ti trovi. Prendi poco con te e solo quel che è davvero importante. "E come posso capire che cosa sia davvero importante?", gli chiedevo. "Il punto è tutto lì", rideva lui» . CORRIERE della SERA 20/12/2010,

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