venerdì 11 febbraio 2011


la sinagoga di Firenze
Passigli: "Questa è la mia Memoria"

C’è tutta la sofferenza del ricordo, la paura e l’angoscia di quei mesi nascosto dalle Suore di San Giuseppe sotto falsa identità, il dolore di un abbraccio con i nonni paterni che non tornerà più, spazzato via dalla razzia del ghetto di Roma che si prenderà per sempre Guido e Virginia Passigli, unici ebrei fiorentini vittima delle SS di Kappler in quei tremendi giorni capitolini. Ma c’è anche la consapevolezza di una vita che deve continuare nonostante la perdita del padre Raffaello, morto di una gravissima malattia alla vigilia dell’otto settembre. Nuova vita, nuova famiglia, nuovi equilibri suggellati dall’unione della madre Albana con Schulim Vogelmann, ebreo askenazita miracolosamente sopravvissuto all’inferno di Auschwitz. Davanti al Consiglio del Comune di Firenze in rispettoso silenzio per onorare la Memoria della Shoah, il presidente della Comunità ebraica di Firenze Guidobaldo Passigli ha scelto di parlare della sua storia di giovanissima vittima del nazifascismo. Un racconto fatto nella consapevolezza che ogni ebreo sopravvissuto alla Shoah ha la sua storia da raccontare. Storie di ansie e di paure, di amicizie e di solidarietà, di tragici errori e di ingenuità, di tradimenti e di delazione, storie di disperazione estrema. Storie che scuotono ancora oggi le coscienze. «Giuseppe Dalmasso, Giuseppe Dalmasso detto Guido; così dovrai rispondere a chi ti chiederà come ti chiami». Si era alla fine di ottobre oppure all’inizio di novembre del 1943. Io non avevo ancora 5 anni quando per l’ennesima volta la mia mamma mi fece questa raccomandazione, prima di varcare la soglia di un istituto retto dalle Suore di San Giuseppe in via del Guarlone a Rovezzano. Lì io restai con la mia nonna materna che però non doveva apparire tale, tanto è vero che la madre superiora le fece indossare le vesti dell’Ordine in modo da apparire agli estranei come fosse una suora. Ricordo che c’erano molti bambini della mia età, qualcuno dormiva all’interno in una camerata come la mia, altri la sera andavano a casa per tornare l’indomani. Ricordo che c’erano anche degli adulti e pochi ragazzi più grandi. Io rimasi lì con la mia nonna fino a dopo la liberazione. Mio padre Raffaello Passigli, dopo parecchi mesi di sofferenze per una gravissima malattia allora incurabile, era deceduto il 3 di settembre, praticamente alla vigilia di quell’8 settembre che avrebbe segnato un punto di svolta nel destino e nella vita di tutti gli italiani. La mia mamma, vedova a venticinque anni, aveva accettato di essere nascosta in casa di parenti di una famiglia di Grassina nostra amica: Elio Spicchi, operaio, la sua mamma e la moglie Gina con le loro due bambine in tenerissima età, le fecero posto nel loro piccolo appartamento in un seminterrato vicino a Piazza Gavinana. La accolsero con calore e con amore disinteressato, dividendo con lei le limitate risorse alimentari disponibili. Non ricordo bene in quale momento, ma un giorno la mamma si ricongiunse a me ed alla nonna dalle Suore di San Giuseppe; seppi successivamente che la «caccia agli ebrei», anche a seguito di spiate, era sempre più attiva e che era divenuto sempre più pericoloso e rischioso tenere nascosti in casa propria degli ebrei. La madre superiora aveva perciò accettato di accogliere una seconda persona adulta della mia famiglia, anche se lo spazio ormai disponibile nell’istituto era ristretto. Anche la mia mamma indossò le vesti dell’Ordine I miei nonni paterni Guido e Virginia Passigli, di età intorno ai settantacinque anni, dopo la lunghissima malattia di mio padre, la prognosi infausta della quale era da loro ben conosciuta, erano psicologicamente, moralmente e fisicamente distrutti. A questo si aggiunse il grande senso di incertezza, di confusione generale che esplose in tutta Italia a partire dall’8 settembre. Però ancora non si pensava minimamente al pericolo per gli ebrei di essere catturati. Essi non si sentivano più di vivere nella casa e nell’ambiente fiorentino che aveva visto la lunghisima malattia, che si alternava a periodi di quasi-normalità, e le sofferenze del loro figlio e pensarono che avrebbe loro giovato di passare un periodo a Roma, dove viveva il fratello del nonno e la sua famiglia. Così l’11 o il 12 di ottobre partirono in treno per Roma, dove arrivarono dopo un viaggio disastroso lungo dodici ore. La tragica trappola del destino era ormai scattata. Il sabato 16 ottobre (il cosiddetto «sabato nero» degli ebrei romani) essi, credo unici fiorentini, furono catturati dalle SS di Kappler nella prima retata di ebrei di Roma. Si sa che tutti gli ebrei catturati furono rinchiusi nel Collegio Militare; l’evento della loro partenza dipendeva da quali parole sarebbero state pronunciate dall’altra parte del Tevere. Il convoglio lasciò la stazione Tiburtina il lunedì 18 ottobre e arrivò dopo cinque interminabili giorni ad Auschwitz/Birkenau; la loro tragica orrenda fine avvenne nella stessa giornata. Tutto questo si seppe a Firenze solamente parecchio tempo dopo. Schulim Vogelmann, nato in Polonia, arrivò quasi ventenne a Firenze alla fine del 1921, per imparare il mestiere di tipografo, arte nobile che lo avrebbe messo in contatto con il mondo accademico, con le persone di cultura, e quindi ritenuto un lavoro che poteva dare garanzie per il futuro. Qui era stato chiamato dal fratello, studente e laureando in Lettere Classiche alla nostra università, ma anche docente nell’allora esistente Collegio Rabbinico Italiano che aveva la sua sede in Borgo Pinti, questo giovane, sportivo e pieno di energia, dopo aver imparato la base del mestiere di compositore a mano in piccole tipografie artigiane, si presentò a Leo Samuele Olschki, illuminato uomo di cultura ed editore, ed anche valorizzatore della libreria di antiquariato, ma soprattutto proprietario della Tipografia Giuntina, dove forse c’era posto per lui. L’incontro fu proficuo, ed egli fu assunto come operaio compositore. Quando alla fine del 1928 andò in pensione il direttore, fu dato a lui quell’incarico. In quegli anni aveva ottenuto la cittadinanza italiana. Nel 1933 egli sposa Anna Disegni, figlia del rabbino di Torino, e nel 1935 nasce Sissel Emilia. Con le leggi razziali del 1938 Anna viene allontanata dalla cattedra di Lettere Italiane dell’Istituto Duca D’Aosta di via della Colonna; Sissel nel 1941 inizia la prima elementare alla scuola ebraica accanto al Tempio di via Farini. Nel 1940 Leo Samuele Olschki, prevedendo tempi molto difficili, decide di lasciare Firenze e si trasferisce in Svizzera con la attività editoriale e la libreria antiquaria, mentre mette in vendita la tipografia. Schulim Vogelmann ne rimane direttore. Alla fine del 1943 egli con Anna e Sissel di 8 anni tenta di andare in Svizzera; essi viaggiano con documenti di identità falsi forniti dall’avvocato Enrico Bocci. Vengono catturati alla frontiera e riportati a Firenze, provvisoriamente internati per qualche settimana nel campo di Villa La Selva al Ponte a Ema. Verso la fine di gennaio 1944 vengono portati a Milano, con breve sosta a San Vittore. Partono il 31 gennaio 1944 su un carro bestiame dal binario 21 che si trova nel piano interrato della stazione centrale di Milano; la destinazione è Auschwitz/Birkenau. All’arrivo, dopo cinque giorni di viaggio drammatico, Anna con Sissel vengono immediatamente selezionate per la camera a gas. Schulim viene considerato abile al lavoro ed inizia per lui la durissima vita di internato. Egli fu sempre molto avaro di racconti anche in famiglia; quando qualcuno gli chiedeva dei particolari, egli rispondeva che si era salvato grazie a quattro cose: la conoscenza della lingua tedesca, la sua prestanza fisica di abile nuotatore, il suo mestiere di tipografo, ma soprattutto una grande dose di fortuna nei momenti più critici. Quando arrivò al campo egli pesava ottanta chili, quando ne uscì pesava quaranta chili. Egli rientrò a Firenze nell’agosto del 1945, dove nessuno più si immaginava che sarebbe ritornato. Riprese con energia il suo lavoro, rimettendo in piedi la attività praticamente distrutta. Nel dicembre 1946 egli conobbe la mia mamma; si raccontarono le loro durissime tragiche esperienze, decisero di creare una nuova famiglia. Io avrei così trovato quel padre che non avevo potuto avere. Nel 1948 nacque il mio fratello Daniel. Signor Presidente del Consiglio comunale di Firenze, signori consiglieri. Io sono molto onorato di essere stato chiamato oggi in questa solenne Seduta di Consiglio per parlarvi sul Giorno della Memoria. Ho accolto subito la vostra richiesta ed ho scelto che vi avrei parlato soprattutto di come la Shoah ha influito sulla mia vita, cioè sulla vita di un qualsiasi bambino ebreo di Firenze, che apparteneva ad una qualsiasi famiglia di questa città. Ho pensato che questa testimonianza diretta potesse essere il giusto punto di partenza per affrontare l’argomento. Ogni ebreo sopravvissuto alla guerra potrebbe oggi raccontare la sua storia, le sue storie, come oggi ho fatto io, storie tutte uguali e tutte diverse al tempo stesso. Storie fatte di ansie e di paure, di amicizie e di solidarietà da parte anche di estranei, storie di tragici errori e di ingenuità, storie di tradimenti e di delazione da parte di falsi amici, storie di disperazione estrema. Sono 248 gli ebrei della nostra comunità che hanno trovato tragica morte per mano dei nazifascisti; ci sono altre diverse decine di ebrei catturati casualmente a Firenze perché qui si erano rifugiati provenienti da altre località europee dove le persecuzioni e la loro cattura erano iniziate già nel 1941 e nel 1942. I nomi di tutti loro sono scritti sulle lapidi nel giardino della nostra sinagoga: tra di essi ci sono bambini anche in tenerissima età ed anche gli anziani di ottanta e novanta anni che erano ospiti della casa di riposo del viale che oggi è intitolato ad Amendola. Non posso non citareCarolina Lombroso Calò, che partorì la sua creatura durante il trasporto ad Auschwitz/Birkenau. Tutti loro furono strappati ai loro affetti, alle loro case, alle loro attività e furono avviati verso la morte. E così avvenne in tutti i paesi d’Europa per sei milioni di esseri umani. Il poeta yiddish Yitzhak Katzenelson, originario della Bielorussia ma catturato in Francia, anch’egli poi scomparso nel baratro di Birkenau, ci ha lasciato un poema scritto nel campo di Vittel e fortunosamente ritrovato perché lui lo aveva là sotterrato; il Canto IX “Ai cieli” così esordisce:… Cieli, ditemi perché, perché! Perché dobbiamo essere tanto umiliati in questo mondo? La terra, sorda e muta, ha chiuso gli occhi… Ma voi cieli, voi dall’alto avete visto tutto e non siete crollati dalla vergogna! Non una nuvola ha coperto il vostro vile azzurro, che come sempre mostrava il suo falso splendore; il sole, rosso come un carnefice feroce, ha continuato il suo corso; la luna, come una vecchia puttana, come una peccatrice, è uscita di notte a passeggiare, e le stelle ammiccavano luride come occhi di topi. Basta! Non voglio più guardarvi, non voglio più vedervi… Primo Levi, nella introduzione alla edizione italiana, così commentava questo canto: "Qui è Giobbe che parla, un Giobbe moderno più vero e compiuto dell’antico, ferito a morte nelle sue cose più care, nella famiglia e nella fede, orbo ormai dell’una e dell’altra. Ma alle domande eterne del Giobbe antico si erano levate voci in risposta, le voci prudenti e timorate dei «consolatori molesti», la voce sovrana del Signore: alle domande del Giobbe moderno nessuno risponde, nessuna voce esce dal turbine. Non c’è più un Dio nel grembo dei cieli «nulli e vuoti», che assistono impassibili al compiersi del massacro insensato, alla fine del popolo creatore di Dio". Come è uso della tradizione ebraica quando si parla di defunti, diciamo insieme: il loro ricordo sia di benedizione. Guidobaldo Passigli, presidente della Comunità Ebraica di Firenze http://www.moked.it/

Nessun commento: