venerdì 18 febbraio 2011


Moses Hess

I nomi dell’emancipazione

Il Centociquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia ripropone, insieme al discorso sull’emancipazione degli ebrei e sul suo intreccio con il processo risorgimentale, anche il dibattito ormai antico sull’“assimilazione”. Come storica, vorrei intervenire sui nomi. I nomi intendo dati all’emancipazione degli ebrei, il contesto in cui questi nomi si sono affermati e il senso che hanno assunto, nella consapevolezza - una vera e propria malattia professionale di noi storici - che i nomi sono delle interpretazioni e in quanto tali nascono in un particolare contesto storico, obbediscono a bisogni particolari. Il più diffuso di questi nomi, “emancipazione”, appare per la prima volta in riferimento agli ebrei già nella Germania della prima metà dell’Ottocento, in seguito all’emancipazione dei cattolici irlandesi, nel 1829. Anche il termine “assimilazione” appare nella prima metà del XIX secolo e viene usato in alcune pagine di Heinrich Heine e di Moses Hess, entrando nel dibattito politico però solo intorno agli anni ‘80 dell’Ottocento. Esso è, tra tutti i nomi usati per designare l’ingresso degli ebrei nella società esterna, il più ambiguo e il più connotato negativamente, perché suggerisce l’idea che tale inserzione abbia provocato la perdita, veloce o progressiva, della loro identità ebraica. Assai più recenti, degli ultimi decenni., sono invece i termini, ormai molto usati, di integrazione, acculturazione, modernizzazione, desunti dalle scienze sociali a designare l’entrata di una minoranza, in questo caso quella ebraica, nella società esterna. Nei loro studi sugli ebrei dei vari paesi d’Europa, gli storici fanno molta attenzione a distinguere queste etichette e a precisare la natura dei diversi processi, mentre nella vulgata storiografica sono termini che vengono spesso usati in maniera indifferenziata a descrivere quelli che sono in realtà processi di diversa natura, economico-sociale, giuridico-politica, identitario-religiosa. Questa vulgata, pur obbedendo a motivazioni diverse da quelle della storia risponde ad un percorso storico assai specifico fatto dal mondo ebraico italiano nella sua interpretazione del proprio passato: la costruzione di un paradigma identitario dalla fusione, negli anni intorno all’inizio del Novecento, di una precedente riflessione sulla necessità di tener saldo un ebraismo passibile di disgregazione, frutto di timori soprattutto religiosi e tale comunque da non mettere mai in discussione l’adesione all’emancipazione e al processo risorgimentale, e la polemica antiemancipatoria del sionismo, che vedeva in questa integrazione la perdita dell’identità della diaspora. Si trattava di un modello interpretativo della storia degli ebrei che si basava sulla netta contrapposizione tra identità ebraica ed “assimilazione” e che è rimasto a lungo egemone nella storiografia e nel senso comune storiografico, fino a prender nuova linfa dalla riflessione del dopo Shoah sull’inanità dell’emancipazione. Si tratta di interpretazioni che hanno goduto di un’eccezionale vitalità nel mondo ebraico italiano, anche se in anni recenti gli storici degli ebrei, a partire dalla storiografia anglosassone ed israeliana, le hanno confutate e demolite sulla base di attenti studi di storia sociale e culturale, fino a proporre, come in uno studio sul caso tedesco dello storico Scott Spector apparso nel 2006 sulla rivista americana Jewish History, l’eliminazione pura e semplice del termine “assimilazione” dall’uso storiografico: “Forget assimilation”, dimenticatevi dell’assimilazione.Anna Foa, storica, http://www.moked.it/

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