sabato 19 marzo 2011


"Il folle cabaret del professor Fabrikant" di Yirmi Pinkus

Cargo, 354 pp., 20 euro
I giorni degli artisti del teatro yiddish sono ora romanzati ne “Il folle cabaret del professor Fabrikant”, di Yirmi Pinkus, disegnatore e grafico israeliano, che vive nomadicamente tra la Germania e Israele. Il libro è una storia fantastica che però ha un nitido valore documentale quanto a luoghi, stile di vita e persino quanto alla gastronomia, con le gelatine di ali, i ventrigli di pollo, e “i grossi ravioli di pasta bianca ripieni di grano saraceno ripassati in un soffritto di cipolla”. Vicenda inscritta in Romania, tra il 1876 e il 1939, che si arresta davanti ai discorsi impauriti su Hitler e alle vana illusione ebraica di andare avanti con la vita. Il romanzo prende le mosse dalla morte del fondatore di questa compagnia femminile di cabaret yiddish, il professor Markus Fabrikant, che non è affatto un professore ma si lascia chiamare così. All’inizio Fabrikant è un giovane di buona famiglia allegramente senza prospettive in una cittadina della provincia romena; amante della vita notturna, passa dall’esistenza di mancato studente al rutilante mondo del teatro. Si spenderà nella regia, la scelta del repertorio, la distribuzione delle parti e amministrando bene il botteghino. Poi la fondazione del gruppo di cabaret yiddish corrisponde al fatto che il professore entra negli orfanotrofi e affilia bambine abbandonate che senza il teatro avrebbero una vita di miseria, in attesa di qualcosa di peggiore. Invece corrono una vita avventurosa: nomadi, con trionfi di una sera, interiormente ricche. Del resto, va detto che è l’eterna storia dell’arte della commedia, basta leggere la vita di Molière, romanzata da Bulgakov. Fabrikant sa tutelare questa compagnia di teatro femminile ebraico, fragilità dentro alla fragilità. Debitamente istruite su come si recita, si fa ridere, si canta, le bambine crescono e diventano leggendarie attrici ebree: amate da piccoli gruppi di culto teatrale dalla provincia romena a Varsavia, custodi di una antica cultura spirituale e vernacolare, allegra e malinconica. Alla morte del professore, il teatro passa a un nipote e inizia la lotta senza quartiere per l’ambita eredità, che non è affatto la direzione artistica, ma un sacchetto di diamanti. Una vera fortuna acquistata a suo tempo dal professor Fabrikant come tutela del teatro e delle sue attrici. Per decenni, i diamanti sono concupiti con testarda disonestà e un cinismo di acciaio da Zofia Fabrikant, la vedova astiosa del fratello di Markus, scornata dal fatto che la gestione dei beni materiali del teatro siano andati al proprio figlio minore, il quale non ha alcuna intenzione di sottrarre i diamanti alla compagnia e passarli alla madre, come avrebbe fatto il figlio maggiore. La storia del cabaret e del suo repertorio, copioni improbabili come Artemide e Adone, le canzoni, i numeri comici, le orchestrine kletzmer, ha una conclusione drammatica nel 1939, quando la cocciuta cognata del professore fa scoppiare una rissa per bloccare lo spettacolo, tenuto da attrici ormai anziane e ancora adorate. Scoppia un incendio che distrugge le quinte i costumi, tutto. La tesoriera della compagnia fugge in Svizzera coi diamanti, stanca di una vita di oscuri sacrifici non apprezzati da nessuno. La ritroviamo alla fine della guerra, in una decorosa casa svizzera, designificata, angosciata dall’essersi salvata nel deserto. Più niente del suo mondo. Valeva la pena rubare e vivere nel fallimento? In uno scambio di battute avvenuto nel ’38, qualcuno di questo mondo completamente espulso dalla vita dice: “Basta con la poesia! Siamo ebrei, signori, non dimenticatelo. Quando riusciamo ed eccelliamo, ci accusano di avidità; se non riusciamo e non eccelliamo, ci chiamano parassiti”.17 marzo 2011 http://www.ilfoglio.it/

Nessun commento: