martedì 22 marzo 2011


Israele di fronte alle rivoluzioni dell'Islam: speranza o pericolo?

Cosa succederà a Israele che si trova geograficamente al centro del teatro rivoluzionario che vede come protagonista il Nord Africa e il Medioriente? Questi venti di cambiamento sono da interpretare come un’occasione o un rischio per l’unica democrazia respirante dell’area? Quali sono le possibili ripercussioni sul conflitto israelo-palestinese? Chi saranno i nuovi interlocutori di Europa e America a fronte dei nuovi assetti geopolitici? Questi alcuni degli interrogativi che sono stati sviscerati da analisti e politici, italiani e internazionali nel corso del convegno “Israele di fronte alla rivoluzione dei paesi musulmani: speranza o pericolo”, promosso dall'associazione Summit, presieduta da Fiamma Nirenstein, Vicepresidente della Commissione Esteri della Camera. La convention, con una straordinaria tempestività – se volgiamo lo sguardo a quanto sta accadendo in queste ore in Libia giunta al suo secondo giorno di “Odyssey dawn” –, ha affrontato attraverso tre focus tematici i nodi fondamentali delle rivolte che stanno infuocando la ‘piazza araba’. Punto di convergenza tra i relatori del primo panel – da Robin Shepherd direttore degli Affari Internazionali del think tank londinese Henry Jackson Society al politologo Khaled Fouad Allam – intitolato “Un futuro di pace o una prospettiva di guerra?”, è che nessuno ha la certezza di cosa stia succedendo e di quale sarà l’esito dell’intervento occidentale che avuto inizio 48 ore fa con l’attacco alle postazioni militari di Muammar Gheddafi. Per Guido Crosetto, Sottosegretario al ministero della Difesa, il vero problema è che “nessuno in Occidente si aspettava ciò che è successo in questi mesi perché per la prima volta ci siamo trovati di fronte a una rivoluzione dal basso non in chiave antioccidentale”. Di conseguenza, secondo il Sottosegretario, l’elemento che maggiormente preoccupa è la “mancanza dell’idea di un percorso e soprattutto della politica”; a detta di Crosetto i Paesi che si stanno muovendo lo stanno facendo perché “spinti da motivi elettorali o economici”, prospettive strategiche di non lunga durata. Dello stesso avviso il giornalista e scrittore Carlo Panella che ha sottolineato come, più che di mancanza di politica, siamo di fronte ad una cattiva politica. L’esempio calzante lo dà la condotta di Obama che anche stavolta, come già successo con l’Iran, non è riuscita a impostare su nessun terreno trattative con i regimi. Per Panella sull’Iran e sull’Egitto, in particolare, manca la capacità di mettere dentro lo schema di ragionamento il tema del “consenso dei dittatori”. La missione dell’Europa e degli Stati Uniti doveva essere “responsabilizzare gli arabi” e invece si è arrivati “a una guerra affidata ai generali”. Sia Panella che Shepherd sottolineano come tale clima di rivoluzione e, in particolare, la caduta di un personaggio come Mubarak ponga Israele al cospetto di un problema: la mancanza di un tramite con l’opinione pubblica araba. Il secondo panel si è concentrato sui riflessi che le rivolte del Medio Oriente e del Nord Africa potrebbero avere sul turbolento e annoso conflitto israelo-palestinese. Come giustamente sottolineato dall’On. Nirenstein “la vera questione del mondo arabo è il mondo arabo stesso e non ce n’eravamo accorti”. La colpa di quanto sta accadendo, quindi, non è imputabile a cause esterne, quali appunto lo scontro per il riconoscimento dello stato d’Israele. Per la Vicepresidente della Commissione Esteri della Camera è necessaria, in questo senso, una “rivoluzione epistemologica”, altrimenti si continuerà a usare come capro espiatorio chi non centra in alcun modo con i problemi di uno stato piuttosto che un altro. Pinhas Inbari, corrispondente per le questioni palestinesi della radio israeliana e analista del Jerusalem Center for Public Affairs, ha poi focalizzato il discorso sugli interrogativi che gli sviluppi nel Medio Oriente fanno sorgere presso i palestinesi. Inbari si concentra, nello specifico, su due punti: la questione della legittimità per il regime di Ramallah e di Abu Mazen e la questione dell’equilibrio di potere, attualmente sbilanciato a favore di Hamas. Un intervento deciso quello di Mario Sechi, direttore del Tempo, che ha ribadito con forza la necessità dell’intervento armato da parte dell’Occidente nella questione libica e dell’esportazione della democrazia in quelle zone, perché il pericolo di perdere il “mare nostrum”, ovvero il Mediterraneo, è più che tangibile. La terza ed ultima sessione di lavori è stata dedicata al tema “Europa e Usa: della ricerca di nuovi equilibri”. Yossi Kuperwasser, Direttore generale del Ministero Israeliano per gli Affari Strategici, ha ribadito che la comunità israeliana vede positivamente l’ondata di democratizzazione che sta investendo il Medio Oriente ma esprime, allo stesso tempo, preoccupazione per quanto sta accadendo perché nelle terre della rivolta ci sono delle forze che premono per l’affermazione di correnti radicali e c’è una totale assenza di cultura della pace. Se per Margherita Boniver, Presidente della Commissione bicamerale Schengen, le parole d’ordine, in riferimento al conflitto libico, sono “scetticismo” e “prudenza”, più ottimista si dice l'On. Gianni Vernetti che, seppure intravede “rischi” all’orizzonte (vedi l'emergere dei Fratelli Mussulmani in Egitto e delle forze islamiste in Turchia), afferma ci sia una grande opportunità, scommettere finalmente sul destino di libertà di quei Paesi. Determinata sull’intervento del nostro Paese contro Gheddafi Marta Dassù, direttore di Aspenia, che richiama gli importanti interessi nazionali in ballo nel territorio sotto il controllo del Rais e mette in guardia dallo scenario che si è delineato sul fronte europeo, con un preoccupante iperattivismo francese e una linea isolazionista tedesca. L’Italia, per la Dassù, potrebbe porsi come punto d’equilibrio sullo scacchiere internazionale. http://www.loccidentale.it/

Nessun commento: