mercoledì 16 marzo 2011


Noa canta, Napoli risponde

di Dario De Marco ⋅ 16 marzo 2011 http://costruendo.lindro.it/
Ah, l’irresistibile retorica della canzone napoletana! Ah, l’insopportabile fascino della canzone napoletana! E infatti, chi si è salvato? Nessuno. Dai grandi tenori dell’epoca di Beniamino Gigli (che Pavarotti non è stato mica il primo, casomai l’ultimo) a Elvis Presley che almeno ebbe la decenza di tradurla, ‘O sole mio (It’s now or never); dal brasileiro Caetano Veloso con la sua ‘Luna Rossa’ all’italo-italiano John Turturro che addirittura ci ha fatto un film (‘Passione’) buttandoci dentro di tutto Fiorello compreso. Ci sono cascati tutti, anche quelli che ci azzeccavano poco o niente. E per esempio, che ci azzecca con Napoli una ebrea yemenita, scappata bambina dalla teocrazia e riparata in Israele, e da lì in America, e poi alla ricerca disperata di una identità di nuovo a Tel Aviv, per perdersi infine e ritrovarsi nella musica, che è come dire in nessun luogo e dappertutto? Perché questa è Achinoam Nin, nota in tutto il mondo come Noa. Che ha appena pubblicato il disco ‘Noapolis’, e indovinate che canta? Tra l’altro è un tornare sulla scena del delitto, perché qualche anno fa Noa aveva già inciso ‘Napoli-Tel Aviv’, un esperimento molto divertente in cui oltre a intervenire ovviamente sugli arrangiamenti musicali, si era fatta anche tradurre i testi in ebraico: straniante, e proprio per la sua distanza meno a rischio di scandalizzare i puristi. Invece, cinque anni dopo, ancora Napoli, e in napoletano stavolta. Disastro? No, sorpresa. Merito suo, della sua grande passione ma anche di alcune scelte intelligenti, e di un bel po’ di studio. Perché oltre al solito Gil Dor, suo alter ego alla chitarra, e al percussionista ebreo-turco Zohar Fresco, Noa è accompagnata dal Solis String Quartet, i cui musicisti sono stati ben più che un semplice supporto strumentale. Si vede dalla scelta dei pezzi, tutt’altro che scontata: certo ci sono i superclassici come ‘Era de maggio’, ‘Torna a Surriento’, ‘I’ te vurria vasa’’ e pure l’inevitabile ‘Tammuriata nera’ (che però almeno non è messa come pezzo di chiusura, e sembra fatta da un’orchestra classica araba nella strofa, mentre nel ritornello ha il pregio di rallentare invece che esplodere di finta popolanità). Né mancano le canzoni più campaniliste o nostalgiche come ‘Santa Lucia luntana’, ‘Napule ca se ne va’, ‘‘A cartulina ‘e Napule’. Ma vengono anche pescate perle semisconosciute, al di fuori del repertorio della canzone napoletana classica (cioè ottocentesca): l’indimenticabile ‘Fenesta vascia’, addirittura due villanelle rinascimentali come ‘Sia maledetta l’acqua’ (riportata alla luce dalla Nuova Compagnia di canto popolare negli anni ’70) e ‘Villanella che all’acqua vai’. Infine tornano le versioni tradotte: ‘Nini Kangy’ e ‘Nonna Nonna’ (Gaa’gua). Gli arrangiamenti sono raffinati senza stravolgere, l’interpretazione è misurata (quanti inutili allucchi abbiamo dovuto sopportare…), e un punto di solito tragico viene superato senza troppi dolori: quello della pronuncia del dialetto, non impeccabile, ma meglio di tanti italiani-non-napoletani, per esempio Mina. Che ci azzecca allora una ebrea yemenita americana israeliana che ha girato il mondo in cerca di se stessa, con una città che non si è mai mossa perché tutto il mondo è venuto fin qui a cercarla? Ecco, niente. E appunto, tutto.

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