domenica 13 marzo 2011


"Prima o poi anche Fatah e Hamas dovranno fare i conti con la rivolta"

Intervista a Khaled A. Tomaeh* di Edoardo Ferrazzani 11 Marzo 2011http://www.loccidentale.it/
Ha toccato le punte atlantiche del Maghreb, tutto il Nord Africa, Egitto, Oman e Yemen. Incendia la Libia. Fa tremare la corona dei Saud in Arabia. Le rivolte di questi ultimi tre mesi hanno scosso regimi e autocrati che si credevano monoliti. Ha rilanciato il tema della democrazia nel mondo arabo, acceso cuori e fatto vittime. Mostrato potenti dittatori costretti all’esilio, gettati nella polvere della storia senza la ‘s’ maiuscola. Tutti toccati dal vento della rivolta, tutti tranne la Cisgiordania e Gaza. Incomprensibilmente la piazza che per decenni è stata uno dei termometri politici più puntuali del mondo arabo, quella palestinese, non è stata investita dalle rivolte. Delle cause connesse a questa strana eccezione palestinese e delle reali possibilità che la “primavera araba” bussi alle porte della West Bank e di Gaza, abbiamo parlato con il giornalista arabo-israeliano, Khaled Abu Tomaeh. Di stanza a Gerusalemme ed esperto conoscitore del conflitto israelo-palestinese, Tomaeh ci dice che benché Fatah e Hamas facciano di tutto per impedire spontanee manifestazioni di dissenso popolare, “nel lungo periodo non riusciranno a contenere” la marea. Sig. Tomaeh, la politica palestinese è stata considerata per decenni un termometro politico per l’intero medio oriente. Nelle piazze tunisine, egiziane e quasi ovunque nella regione spira il vento della rivolta mentre in Palestina tutto tace. Come se lo spiega? Prima di tutto è necessario dire che ciò che accade nel mondo arabo è assolutamente scollegato da quel che succede in Palestina. Le sommosse a cui assistiamo hanno a che fare con la relazione che gli arabi avevano nei confronti dei loro governi. Si è trattato di rivolte contro le dittature che li hanno per decenni governati. Le genti arabe si stanno ribellando per la prima volta senza che il simbolo Israele sia parte delle proteste, salvo in rarissimi e sporadici casi. Sono, come abbiamo visto, delle richieste di regime change e il conflitto israelo-palestinese non c'entra molto. Intende dire che in Cisgiordania e a Gaza non ci sia un malcontento nei confronti delle rispettive leadership che giustifichi delle proteste? In verità abbiamo assistito ad alcuni tentativi di organizzazione di qualche forma di protesta tra la gioventù palestinese. Per esempio un gruppo di giovani ha tentato il lancio di una campagna su facebook per chiedere “unità” tra Fatah e Hamas, che come noto, si combattono su opposte fazioni da anni. Questo tentativo può considerarsi un primo timido modo per i giovani palestinesi di farsi sentire. Il punto è che tanto la dirigenza di Ramallah quanto quella di Gaza City stanno facendo di tutto per impedire che certe manifestazioni abbiano luogo. Controllano i social network e reprimono qualsiasi manifestazione non concordata. Ma è evidente a tutti che nel lungo periodo tanto Fatah che Hamas non saranno capaci di tenere a bada i movimenti dal basso. In particolare come fronteggia Hamas il rischio ribellione? Quello che sappiamo è che i vertici di Hamas sono molto nervosi e temono quella noi che chiamiamo "la rivoluzione di Facebook". Ci sono state persone che hanno tentato di manifestare nel centro di Gaza City. Si sono trovate di fronte a un significativo dispositivo di sicurezza delle forze governative. Queste persone domandavano solo riforme in senso democratico e “unità” con Fatah. Ma è chiaro che i vertici della striscia si sentano sotto pressione. Basti far presente che proprio in questi giorni il governo di Ismail Hanye stia considerando un rimpasto di governo, accanto a misure di rilancio dell’economia e di distribuzione di denaro alle fasce più povere della popolazione. Benché chiaramente la leadership di Hamas tema spontanee manifestazioni di dissenso in casa propria, non credo tuttavia che attualmente vi siano grossi rischi che la rivolta possa inficiarne l’autorità, almeno nel breve periodo. Nella West bank il premier Salem Fayyad ha, neanche un mese fa, presentato formali dimissioni al presidente Abbas per poi vedersi riconfermato primo ministro. Si parlava da tempo di rimpasto. Si è trattato a suo parere di un espediente legato alle rivolte arabe o forse anche lo scandalo dei Palestinian papers ha fatto la sua parte? Il rimpasto nel gabinetto di Fayyad era previsto da tempo, in vista anche delle elezioni di quest’anno nella West Bank. Lo scandalo dei Palestinian papers scoppiato con le rivelazioni di Al Jazeera ha sicuramente minato l’autorevolezza della leadership di Fatah ma, a parer mio, non c’è un legame diretto tra questo scandalo e il rimpasto. Peraltro Fayyad non è emerso come uno degli “eroi” dei Palestinian papers. La sua immagine personale non mi sembra ne sia risultata danneggiata. Piuttosto mi concentrerei sulla tempistica. E’ chiaro che le rivolte in Tunisia e in Egitto hanno accelerato tutto il processo. Nel complesso, comunque, anche per la leadership di Fatah vale quello appena detto per Hamas. Nella West Bank c’è nervosismo palpabile e come non ne manca anche nei restanti paesi della regione. Con il rimpasto del governo i vertici di Fatah stanno certamente tentando di mandare un messaggio di riforma in senso democratico alla propria gente: “Vedete anche noi stiamo cercando una via più democratica”. Si dica anche che l'espediente del rimpasto non è un'esclusiva dell'Anp. Ne abbiamo visti altri in Giordania, in Oman, in Yemen. Insomma Fatah sta reagendo più o meno come la maggior parte dei governanti in preda al panico in giro per la regione. Un'ultima domanda sull'Egitto. Qaradawi, il leader egiziano della fratellanza musulmana, ha recentemente infuocato la folla a piazza Tahrir promettendo una “marcia su Gerusalemme”. C’è il rischio che in poco tempo Israele si ritrovi di fronte a un Egitto ostile, accanto a un Libano condizionato da Hezbollah, e una Siria a braccetto con Teheran. Si tratta di uno scenario apocalittico o di una reale minaccia? Sin dalla prima ora delle rivolte in Tunisia e poi in Egitto e ovunque vi siano state proteste nella regione, il rischio che esse venissero prese in ostaggio da minoranze estremiste è stato concreto. Rimane tale ancora oggi. Guardi che l’Iran sia un reale minaccia per l’intera regione è cosa molto concreta. Già ne vediamo i prodromi in Egitto e domani non è da escludere che ciò possa accadere, se ve ne fossero le condizioni, anche in Giordania, l’altro paese che assieme agli egiziani, intrattiene relazioni diplomatiche con Israele. L’Iran ha le mani in pasta in tanti paesi della regione, non solo in Libano con Hezbollah e a Gaza. L’intento di Teheran è sempre lo stesso: indebolire i musulmani moderati e minarne la forza politica. La strategia è rimasta la stessa anche negli ultimi mesi. Il caso egiziano è emblematico: la mancanza di una leadership nel movimento di contestazione è uno dei nodi che rendono la rivolta egiziana estremamente manipolabile da parte di chi è meglio organizzato. C’è insomma il rischio fondato che la fratellanza musulmana finisca col prendere il sopravvento in Egitto. Sarebbero guai seri allora. *Khaled Abu Tomaeh collabora, tra gli altri, con il Jerusalem Post, The Wall Street Journal e l'Hudson Institute di New York.

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