giovedì 17 marzo 2011


Quel legame profondo tra Risorgimento e Sionismo di Vito Kahlun

Quando alle 20.00 del 19 Aprile 2010 cala il buio, si passa da Yom Ha’Azikaron, ovvero il giorno dedicato alla memoria delle vittime di guerra e del terrorismo, alla festa di Yom Ha’Azmaut. Ogni anno il 5 di Iyar, ottavo mese del calendario ebraico, israeliani ed ebrei di tutto il mondo festeggiano la proclamazione dell’indipendenza dello Stato di Israele. Un’indipendenza che in un certo senso ha dei legami con il nostro bel paese. Israele e Italia oltre che a succedersi nell’elenco alfabetico delle nazioni (Islanda, Israele, Italia..), ad avere delle repubbliche democratiche anagraficamente coetanee, a disporre di un patrimonio storico ed artistico di incredibile valore e ad avere al loro interno forti organismi religiosi, sono anche congiunte da un legame ideale ben più profondo: quello tra Risorgimento e Sionismo. Nella prefazione al libro di Maurizio Molinari Ebrei in Italia: un problema di identità(1870-1938) Giovanni Spadolini, politico, giornalista e primo docente universitario di storia contemporanea del nostro paese, afferma che «Una cosa è certa. Il sionismo sta al Risorgimento ebraico così come il mazzinianesimo sta al Risorgimento nazionale italiano». A partire dal primo Risorgimento infatti «il grande profeta del sionismo – Theodor Herzl – ha sempre guardato all’esempio e all’insegnamento di Giuseppe Mazzini». Se il padre del sionismo ebbe un occhio di riguardo verso il nostro paese fu anche perché «l’Italia – secondo lo storico Arnaldo Momigliano – è forse stato l’unico paese in Europa in cui gli ebrei sono stati bene accetti dall’Esercito e dalla Marina e hanno potuto raggiungere i gradi più alti senza alcuna difficoltà»”. In tal senso basti pensare che nel 1907 Ernesto Nathan divenne sindaco di Roma e che basterà attendere il 1910 perché l’Italia abbia il suo primo Presidente del Consiglio di religione ebraica: Luigi Luzzatti. Un legame che traspare anche nel libro Roma e Gerusalemme(1861) di Moses Hess, che oltre ad essere colui che convertì Engels al Comunismo, introdusse Marx ai problemi sociali ed economici e in buona parte fu uno “dei più diretti maestri di Herzl”, ripetendo i ritmi e le cadenze della terza Roma di Mazzini elabora un parallelismo fra la ricostruzione del popolo italiano in unità e il ritorno del popolo ebraico alla “terra promessa”. Un sionismo – come ricordava giustamente Spadolini – che nonostante le sue vibrazioni messianiche era comunque destinato ad «emanciparsi, nella sua complessa esperienza politica, da ogni residuo teocratico». «Un processo di trasformazione – prosegue Spadolini – che non mancò nelle stesse file del mazzinianesimo e della democrazia repubblicana italiana senza mai annullare quel valore di fermento profetico e quasi millenaristico che la speranza mazziniana aveva suscitato agli albori in un paese frantumato, proprio nella intuizione di un legame indissolubile fra valori politici e valori di coscienza, fra morale religiosa e morale civile». Un apporto quello dell’ebraismo italiano alla costituzione dello Stato d’Israele più qualitativo che quantitativo. Dei quasi quattromila ebrei italiani che contribuirono alla costruzione dello Stato di Israele – scrive Spadolini - molti ebbero ruoli di grande prestigio nel campo dell’università e della cultura «nel nesso profondo fra civiltà ebraica e civiltà italiana, complementari e mai contrapposte, intrecciate e non divise nel corse dei secoli». Un apporto quello dello Stato e della politica italiana al sionismo che fu innanzitutto di carattere politico. Vittorio Emanuele III – lo stesso Re che promulgò le leggi razziali – definì la Palestina come «un paese essenzialmente ebraico» anche se poi quando si trattò di muoversi presso Costantinopoli si tirò indietro non andando oltre espressioni di simpatia e di stima verso gli ebrei. Politico perché – come scrisse Spadolini – il movimento democratico italiano, fra primo e secondo Risorgimento, fu sempre dalla parte degli ebrei. Per i democratici integrali infatti «sionismo è sempre stato sinonimo di patriottismo e di fedeltà al diritto di nazionalità». A 62 anni dalla nascita di Israele e a 150 anni dall’Unità di Italia il popolo senza terra ha uno Stato e il territorio senza popolo ha una sua identità. Tuttavia troppo spesso si mettono in discussione entrambe le conquiste. Parte del mondo arabo e diverse organizzazioni terroristiche si ostinano a non riconoscere il diritto all’esistenza di Israele senza però rendersi conto che l’ideale che lega un popolo prescinde dall’esistenza su carta di uno Stato. Da noi invece la situazione è un’altra. Negli ultimi anni è infatti in atto un processo di delegittimazione del processo politico e culturale che ci ha portato all’Unità. C’è chi senza pudore alcuno, ma soprattutto ingigantendo singoli episodi, osa degli accostamenti tra Risorgimento e medioevo. Larghi settori del Parlamento, e del Governo, sembrano disinteressarsi alle celebrazioni dei 150 anni dall’Unità di Italia che rischiano di trasformarsi in simboli non riconoscibili. Se di fatto gli ideali mazziniani furono in grado di ispirare un popolo senza stato oggi, in occasione del 62esimo anniversario dello Stato di Israele, dovremmo riflettere su quella che è la nostra condizione attuale. Quali sono gli ideali e la visione in cui si riconoscono i cittadini e i politici? Quanto investiamo nella formazione di un sentimento patriottico fondato su una visione storica condivisa? Quanto crediamo in noi stessi come italiani e agli ideali alla base della nostra Costituzione? Personalmente non ho una visione molto positiva in tal senso. Ciò non toglie che se davvero si vuole riformare un paese, che troppo spesso si sente estraneo a se stesso, è il caso di lavorare prima ai valori che dovrebbero ispirare il cambiamento e poi ai titoli, capi, sezioni, articoli e commi che lo materializzano. Il presente può dare sicuramente delle ottime indicazioni sulle esigenze attuali ma se non si ha una visione del futuro condivisa, o se peggio ancora si rinnega e non si riconosce l’importanza storica del nostro passato, si rischia di costruire un cambiamento fondato sulla pasta frolla. 19 aprile 2010 http://www.ffwebmagazine.it/ffw/

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