venerdì 15 aprile 2011


Le rivoluzioni in Medio Oriente? E' tutto come prima. Anzi peggio di Fiamma Nirenstein Il Giornale 14 Aprile 2011 .

Tutte le grandi rivoluzioni, quella francese, quella americana, quella russa, quelle nazionali, oltre che sul sangue degli eroi nascono su pile di libri, sulle parole dei filosofi e dei grandi leader. Le esclamazioni non sono sufficienti, neppure quelle dei bloggers. Naturalmente a noi occidentali le rivoluzioni piacciono molto, sono i motori, le levatrici della nostra storia. E forse questo ci porta a fare pesanti errori nella valutazione dell'immenso spettacolo cui assistiamo oggi, della piazza araba in fiamme, dello spettacolo estetico e morale dei moti mediorentali e nordafricani, dei giovani che si battono e muoiono contro orridi regimi i cui crimini, tuttavia, abbiamo sempre cercato di portare all’attenzione senza suscitare grandi passioni. Sharansky generosamente ripete, memore delle sue prigioni e della subitanea caduta dell’URSS, che in ogni uomo è viva una indomabile fiamma di libertà carica di speranza. E Bernard Lewis gli ha risposto, anche lui speranzoso, che tuttavia non di richiesta di libertà qui si tratta, quanto di rispetto da parte di dittatori ladroni e feroci. Noi, pensando che ne nasca democrazia e pace, l'abbiamo chiamata «primavera», e non c'è parola più ricca di gemme. Ma a un rapido giro di sguardo nelle ampie latitudini investite dallo scontro popolare, quello che vediamo fa pensare che il Nuovo Medio Oriente è ancora una volta da rimandare. Non si vede né maggiore libertà né una sistemazione internazionale vantaggiosa per la pace. Tutt'altro. In Egitto il nuovo potere militare ha represso il popolo in piazza Tahrir proprio come quello vecchio. Il 77 per cento della popolazione ha votato per una riforma costituzionale disegnata dai Fratelli Musulmani che, con travestimenti tolleranti destinati a sfiorire, si avvicinano al potere. Il governo provvisorio, e questo è uno dei peggiori guai in vista, sta approntando un trattato di amicizia con l'Iran. Intanto ha smesso di costruire il muro con Gaza che impediva il passaggio di armi e uomini di una pedina base dell'Iran, Hamas; i copti emigrano, convinti che la persecuzione dei cristiani peggiorerà; non c'è forza politica che, in vista delle elezioni, non annunci un ridimensionamento della pace con Israele, e i Fratelli Musulmani hanno dichiarato che «dato che Israele in Medio Oriente lo odiano tutti, deve sparire». Il trattato con l'Iran è conseguenza della distruttiva debolezza americana: quando era in corso la rivoluzione liberale contro il regime degli Ayatollah nel 2009, Obama si mostrò indifferente e dette ad Ahmadinejad la sensazione di poter fare tutto quello che gli pare sia nel campo della costruzione del nucleare che dei diritti umani. E così è stato. L'Iran ha approfittato della paralisi americana per rilanciare il programma nucleare vantandosene, ha addirittura rifiutato di rifornire di benzina gli aerei europei per rappresaglia alle sanzioni, ha ottenuto dall'Egitto il passaggio nel Mediterraneo attraverso il canale di Suez, cosa mai avvenuta prima. Proprio davanti alle coste di Israele. E adesso costruisce una base iraniana permanente sulla costa siriana. L'Iran ha in mano il Libano, con i missili degli Hezbollah puntati su Tel Aviv e Gaza, dove Hamas lavora al nuovo rapporto con l'Egitto, puntando sui suoi sodali Fratelli Musulmani. El Baradei, candidato laico alla presidenza, ha dichiarato che se Israele dovesse attaccare Gaza, l'Egitto scenderebbe in guerra al fianco di Hamas! Hamas nel frattempo, come contributo alla rivoluzione mediorientale, ha lanciato una campagna di attentati e di missili su Israele. La novità in vista è dunque un'alleanza fra Iran e i Fratelli Musulmani egiziani per una guerra a Israele imperniata su Hamas, mentre dal Libano, Hezbollah è pronto e agli ordini degli Ayatollah. Hamas dà pensiero anche al re giordano Abdullah, dato che nel suo Paese il 75% della popolazione è palestinese e fra questi una buona parte è integralista. Abdullah sa che potrebbe distruggere la dinastia ashemita. Con una lettera a Bashar Assad, il rais siriano assediato da una rivoluzione che ha già avuto i suoi 200 uccisi dal regime, propone un'alleanza riformatrice e si riferisce a Israele, nonostante il trattato di pace, come a un nemico mestatore. Una tendenza che di nuovo si presenta prepotente adesso che i dittatori non sanno su chi scaricare le loro disgrazie. Anche Ahmadinejad ieri ha dichiarato che prevede un Medio Oriente senza Israele. In Siria, Bashar intanto gioca con suo fratello Maher a good cop e bad cop. Il dittatore alawita chiama «martiri» i ribelli uccisi dal fratello per suo ordine, e prende misure libertarie eccezionali, figurarsi che intende permettere alle donne di indossare il hijab. A restare al potere lo aiuta l'ambiguità americana che nei mesi passati ha cercato di strapparlo all'asse con l'Iran, un asse cui aderisce anche la Turchia, e spera ancora di farne un alleato, nonostante sia chiaro che la sopravvivenza della sua fragile setta sciita in un mondo per l'80 per cento sunnita, è oggi nelle mani dell'Iran. Sullo scenario libico le cose non vanno bene, compreso il disvelarsi di astiosi contrasti nel mondo occidentale: l'incertezza nell'intervenire ha preso tempo prezioso; la destituzione di Gheddafi è incerta; i ribelli, confusi e inaffidabili in battaglia, sono tipi inaffidabili che pare abbiano venduto a Hamas e agli Hezbollah migliaia di proiettili a gas nervino e mostarda e che abbiano fra i capi personaggi come il colonnello Khoftar, per oltre vent'anni in Afghanistan come membro del gruppo libico islamico di combattimento. Non una patente di liberalità e democrazia. Il Sudan è ormai pista di rifornimento di armi iraniane e di Al Qaeda. Per fermarle Israele ha bombardato i convogli. Lo Yemen è un astruso mosaico di odi tribali e religiosi ormai senza controllo. Nel Golfo, l'Arabia Saudita, a sua volta contestata e quindi ancora peggio quanto a libertà civili e diritti umani, è in armi contro l'espansionismo iraniano che prende piede in Bahrain contro la minoranza sunnita. In tutto ciò Israele aspetta, lascia perdere, risponde agli attacchi di Hamas con durezza ma senza lasciarsi andare e appronta nuove difese antimissile: il sistema si chiama “cupola di acciaio”. Tutta la nuova confusione ha una sua traduzione diplomatica micidiale, in cui balbettiamo di libertà e democrazia senza un oggetto concreto, un gruppo, una realtà civile, cui riferirci e in cui di nuovo la tentazione europea e di Obama è quella di scaricare gli incubi su Israele: l'Onu programma per settembre una risoluzione unilaterale di riconoscimento di uno Stato Palestinese contro tutte le risoluzioni che prevedono sempre una trattativa che garantisca la sicurezza di Israele. Uno stupido modo di placare il moloch arabo in trasformazione.

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