sabato 11 giugno 2011


II guerra mondiale
Voci a confronto

Mattinale ripiegato sulle cronache di lungo periodo, quelle che sbocconcellano non singoli eventi ma una loro serie in successione. A tenere ancora banco è quel che resta della «primavera araba», delle sue evoluzioni ma anche delle possibili involuzioni. Così Paola Peduzzi e Daniele Raineri su il Foglio, Alberto Negri per quello che concerne la Turchia su il Sole 24 Ore, Dimitri Buffa su l’Opinione, Davide Frattini riguardo alla Siria sul Corriere della Sera e Lorenzo Cremonesi per la Libia sulla medesima testata, Gian Micalessin per il Giornale sull’Arabia Saudita. Citiamo di conserva e di sfuggita non perché le questioni poste non meritino attenzione, anche se l’iniziale carica dilacerante è andata inesorabilmente scemando; avremo modo di tornare su questi temi, mentre preferiamo rivolgere la nostra attenzione su altri eventi e, soprattutto, ricorrenze. È infatti una data fatale per il nostro paese il 10 di giugno. Alcuni lettori non lo ricorderanno ma è il giorno in cui, oramai settantuno, anni fa l’Italia di Benito Mussolini entrava in guerra. Bell’esempio di cialtronesca retorica il roboante incipit con il quale il “duce” degli italiani annunciava il dissennato coinvolgimento della penisola in un conflitto che l’avrebbe attraversata in lungo e in largo, rivoltandola come un calzino (irrimediabilmente bucato): «Un’ora segnata dal destino batte nel cielo della nostra patria. L’ora delle decisioni irrevocabili. La dichiarazione di guerra è già stata consegnata agli ambasciatori di Gran Bretagna e Francia. Scendiamo in campo contro le potenze plutocratiche e reazionarie dell’occidente…» e qui la cronaca del tempo si incaricava di far sapere che la suprema concione era accolta dall’entusiasmo partecipato delle folle adoranti, convenute in oceanica assemblea ed estaticamente trasportate verso le mete di gloria che Mussolini prospettava loro. Già da due anni erano peraltro in vigore le tragiche leggi razziste, che avevano posto le premesse giuridiche, legali, amministrative e culturali per la persecuzione prima e lo sterminio poi dell’ebraismo italiano. Le citiamo poiché l’esordio della rassegna è oggi offerto all’articolo di uno storico, Nicola Tranfaglia, che su il Fatto commenta la natura dei giudizi espressi in un rapporto riservato, prodotto dal ministero degli Esteri per la questura di Roma, nell’aprile del 1935 (si noti la data, per cortesia…), nel merito della richiesta avanzata da Emilio Servadio, psicologo italiano, di aderire alla Società psicoanalitica di Vienna e alla Società psicoanalitica internazionale. Il fatto stesso che tale domanda dovesse essere sottoposta al vaglio indagatore dei pubblici uffici – quando si trattava di un atto di volontà di un privato nei confronti di un’associazione a sua volta privata – è di sé un elemento inquietante, che deve fare riflettere su quale fosse lo stato di inibizione delle libertà personali fin dentro la privatezza delle singole esistenze. Ma solleva sconcerto, malgrado tutto quello a cui siamo abituati, il leggere le motivazioni che venivano addotte per negare l’autorizzazione a Servadio. Due sono gli elementi che emergono: il dato politico, laddove si mette in rilievo l’orientamento alternativo al fascismo del milieu culturale al quale Freud fa riferimento, e l’elemento razziale, nel quale spicca, come indicatore avversativo l’appartenenza all’ebraismo di Freud e del suo “circuito”. Lo stesso richiedente, Servadio, ha una madre che «senza voler con ciò toccare la sua onorabilità, sembra essere israelita». Si diceva della data, che è forse l’aspetto più indicativo di tutto il documento, poiché comprova quello che spesso è stato detto – ancorché poi fiaccamente controbattuto da revisionisti di vario genere e tenore – ovvero che l’antisemitismo istituzionale, ingenerato dal regime dopo le vicende coloniali del 1935-36 e in prossimità del conflitto mondiale, non era un meteorite caduto sulla penisola ma il prodotto di una lunga sedimentazione. Il 1935 fu un anno spartiacque poiché la radicalizzazione del fascismo sui temi razzistici iniziava ad emergere come una delle sue spinte più importanti, venendo progressivamente incorporato nel discorso collettivo così come nelle politiche pubbliche. La base di pregiudizi antigiudaici, alimentati da più esponenti, di vertice come di base, della Chiesa cattolica, non si era peraltro di certo diradata, coprendo semmai come una coltre tanto invisibile quanto persistente la cultura e le mentalità diffuse in Italia. Ciò fungeva da robusto supporto per l’uso politico del tema razzista. Cosa che Mussolini iniziò ad alimentare, non necessitato peraltro da nessun obbligo nei confronti di Hitler e dal Reich in camicia bruna (tanto meno da un senso di sudditanza che il dittatore non sentì mai di dovere nutrire, neanche nell’ultimo dei suoi giorni), in quell’anno ancora ben lontani dall’essere identificati come l’«alleato germanico». Datavano infatti al luglio precedente le fortissime tensioni con Berlino, quando al momento dell’assassinio, per mano nazista, del cancelliere austriaco Engelbert Dollfuss, uomo vicino al fascismo, Roma rispose aggressivamente con l’invio di quattro divisioni al confine del Brennero. «L’Italia vigila con l’arma al piede», avrebbero intitolato in quelle ore convulse i giornali di casa nostra, presi da ardimento patriottico. Dal che si desume ancora una volta, se mai ce ne fosse bisogno – sed repetita juvant – che le propensioni razzizzanti del fascismo furono un prodotto autentico e autonomo del regime medesimo. Se si preferisce, potremmo dire “verace,” poiché ben inquadrato dentro il suo viluppo ideologico e culturale. Quel che in seguito successe, fino all’autunno del 1938 e poi molto oltre, nel suo concreto articolarsi, seguì semmai il solco degli eventi, assecondandolo. Ma mai fu caso e sempre e solo calcolo e volontà. Vanno nel senso di quanto già si andava affermando una “rassegna” fa le riflessioni che Marco Pacioni su il Manifesto ci offre parlando del libro di Christopher Browning su «Lo storico e il testimone», laddove pone in rilievo il falso bivio oppositivo tra evento e resoconto. Il secondo ricalca il primo ma non aderisce ad esso nella sua totalità. Ne è una ricostruzione, per l’appunto. La lettura interessata (o ingenua, il che non fa poi troppo la differenza, a conti fatti) del passato, quella che – guarda caso – senz’altro sottintende un’intelaiatura ideologica, invece si presenta sempre come uno sforzo di fittizia “oggettività”, quasi che tra fatto e sua testimonianza dovesse sussistere un’ obbligata corrispondenza totale, nonché univoca ed immediata. La quale è a priori impossibile poiché l’uno e l’altra sono elementi tra di loro diacronici. Agendo in tal modo, ossia negando la possibilità di una o più interpretazioni, può tuttavia occultare la sua natura manipolatoria, presentandosi come l’unica, autentica affermazione di quel che è stato. Browning, studioso di lingua inglese, che già ci aveva consegnato un libro fondamentale, «Uomini comuni», ricostruzione delle prodezze di un reparto di sterminatori di professione, il battaglione 101, ritorna sui passi che sono propri dello storico, che sa cos’è la professione e quante siano le trappole che si tendono nel suo cammino, soprattutto quelle invisibili. La memoria muta nel tempo, i ricordi si trasformano, essendo l’una e gli altri fatti di materia plastica, che si adatta alle circostanze. Ciò non rende meno vero quanto ci viene raccontato ma ci impone non solo uno sforzo molteplice di verifica bensì, soprattutto, di contestualizzazione. La qual cosa non fa rima con relativizzazione bensì con comparazione e storicizzazione, due indici che permettono di cogliere la complessità dei trascorsi (i fatti ricostruiti) e del presente (il modo in cui si rende testimonianza). Se dei primi, i fatti per l’appunto, nulla si può cogliere e capire senza collocarli dentro una dinamica di relazioni, che è ciò su cui si deve indagare, della seconda, la testimonianza, non bisogna mai perdere di vista la sua natura di atto. «Ogni testimonianza viene espressa attraverso il linguaggio di persone la cui memoria muta con il passare del tempo, grazie a fattori psicologici, sociali, estetici e tali cambiamenti, se analizzati all’interno di una massa consistente di attestazioni, non autorizzano atteggiamenti di sfiducia verso i testimoni». Viene allora in mente quanto Borges citava riguardo al problema «del rigore della scienza», laddove il tentativo di essere sempre più puntuali e “oggettivi” porta all’annullamento della ricerca stessa, completamente divorata dal bisogno di essere fusa con l’oggetto delle sue riflessioni: «In quell’Impero, l’Arte della Cartografia raggiunse tale Perfezione che la mappa di una sola Provincia occupava un’intera Città, e la mappa dell’Impero un’intera Provincia. Col tempo, queste Mappe Smisurate non soddisfecero più e i Collegi dei Cartografi crearono una Mappa dell’Impero che aveva la grandezza stessa dell’Impero e con esso coincideva esattamente. Meno Dedite allo Studio della Cartografia, le Generazioni Successive capirono che quella immensa Mappa era Inutile e non senza Empietà l’abbandonarono alle Inclemenze del Sole e degli Inverni. Nei deserti dell’Ovest restano ancora lacere Rovine della Mappa, abitate da Animali e Mendicanti; nell’intero Paese non vi sono altre reliquie delle Discipline Geografiche. Claudio Vercelli 10 giugno 2011, http://www.moked.it/

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