mercoledì 5 ottobre 2011

George Gershwin

Ebraismo e modernità


Nella discussione sul rapporto tra ebraismo e cultura moderna, svoltasi lo scorso 4 settembre, in occasione della Giornata Europea della Cultura Ebraica, alla Comunità ebraica di Siracusa (alla quale abbiamo già fatto cenno, su queste pagine, lo scorso mercoledì 14 settembre), un problema particolarmente interessante che è stato affrontato è quello dei diversi linguaggi dell’arte e della scienza che sono stati attraversati, nel corso del Novecento, dalla creatività ebraica. Essa, come è noto, ha permeato profondamente di sé tutti i campi della cultura umana, dalla musica (con Mendelsohn, Mahler, Gershwin, Schönberg, Stockhausen, Berlin, Dylan…) alla letteratura (Proust, Brecht, Bellow, Kafka, Canetti, Celan, Miller, Morante, Svevo, Saba, Agnon, Vassily Grossman, Isaak e Israel Singer, Némirovsky, Carlo e Primo Levi…), dall’arte figurativa (Chagall, Liechtenstein, Lucien Freud, Rauschenberg…) alle scienze (Einstein, Freud, Sabin, Gödel, Bettelheim, von Neumann, Oppenheimer, Durkheim, Lévi-Strauss, Mauss, Levi Montalcini…), dalla filosofia (Rosenzweig, Buber, Scholem, Adorno, Neher, Aron, Levinas, Barth, Marcuse, Sartre, Benjamin, Arendt, Derrida…) alla storiografia (Juster, Lenel, Momigliano, Volterra, Sereni, Finley, Rabello…), dal cinema (fratelli Marx, Eisenstein, Polansky, Allen, Spielberg, Lewis, Brooks, Mathau…), all’architettura (Mendelsohn, Neufeld, Liebeskind…) alla fotografia (Capa, Newton…). Non è certo esagerato affermare che la cultura moderna, nel suo insieme, è figlia dell’ebraismo: basti pensare, al riguardo, alla semplice esistenza della psicanalisi e della teoria della relatività, dell’antropologia e dell’esistenzialismo, della musica dodecafonica, del cinema sperimentale e dell’arte informale.Ma, a voler ripercorrere i tumultuosi e contorti percorsi compiuti, in Europa e in America, dall’intelligenza ebraica (quantunque secolarizzata, deviata, eretica, contaminata ecc. ecc.), si potrà notare che i risultati più prodigiosi si sono registrati, volta per volta, in campi differenti e in tempi diversi, come se la fiaccola del genio fosse passata, in una tacita staffetta, dalle mani degli scienziati a quelle degli artisti, per poi tornare nuovamente sul terreno della scienza, e così via. Non è, certo, qualcosa che si possa misurare con esattezza, ma è innegabile, per esempio, che ci siano stati degli anni in cui i filosofi ebrei hanno rappresentato la punta più avanzata del pensiero mondiale, e altri anni in cui la genialità ebraica ha alimentato nuove forme di espressione nelle arti plastiche e figurative. Ciò, probabilmente, non è dipeso dal caso, ma, almeno in una certa misura, dalle diverse capacità di ascolto maturate, nei vari contesti, in determinati momenti storici. Oggi, per esempio, non sembra essere più il momento di una “filosofia ebraica”, essendosi, forse, esaurita l’investigazione sul “non senso”, o sul “senso perduto”, e non essendo stato ancora trovato un nuovo, possibile orizzonte di significato. O anche perché, forse, la funzione dei filosofi è oggi affidata agli scrittori, le cui pagine, scritte in America (con Foer, Krauss, Roth) e in Israele (Oz, Appelfed, Yehoshua), assolvono, sempre più, quei compiti di ricerca esistenziale e morale (sull’“essere” e il “dover essere”) un tempo tipico appannaggio della filosofia. L’eterna oscillazione dell’anima ebraica, per esempio, tra particolarismo e universalismo, fedeltà a una specifica tradizione e appartenenza all’umanità tutta, è stata espressa, nel secolo passato, da pensatori come Neher e Levinas, con parole che restano ancora insuperate. Ma la stessa rappresentazione emerge oggi, in modo potente, drammatico e doloroso, negli impietosi romanzi (come Pastorale americana o Il teatro di Sabbath) di Philip Roth.Francesco Lucrezi, storico http://www.moked.it/

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