martedì 8 novembre 2011


Benny Morris: "Due popoli una terra"

Negli ultimi anni ha ripreso a circolare, lanciata da alcuni intellettuali (per lo più della sinistra utopistica, quella che non fa i conti con la realtà), l'idea di un unico stato binazionale che dovrebbe unire arabi palestinesi ed ebrei israeliani, mettendo così fine - nella loro immaginazione - alla diatriba tra israeliani e palestinesi e alla rivendicazione, da parte di questi ultimi, di una Palestina libera e indipendente. L'idea, in realtà, non è affatto nuova e per rendersene conto basta leggere il saggio di Benny Morris, Due popoli una terra. In meno di duecento pagine di piccolo formato, dense e compatte, lo storico israeliano fa il punto della situazione. Innanzitutto stabilisce quali sono le tre formule possibili per la soluzione monostatuale - uno stato con sovranità congiunta arabo-ebraica; uno stato governato dagli ebrei, con o senza una grande o piccola minoranza araba; uno stato governato dagli arabi musulmani, con o senza una grande o piccola minoranza ebraica - e le possibili soluzioni bistatuali, che sin dal 1937 hanno previsto una divisione della Terra d'Israele (o Palestina storica) tra i sue due popoli indigeni, gli ebrei e gli arabi. Naturalmente questa suddivisione può assumere diverse forme, di cui una - quella appoggiata dalla comunità internazionale, con in testa Washington - è quella di uno stato ebraico e uno stato arabo-palestinese, che dovrebbe sorgere nella maggior parte della Cisgiordania e di Gaza.Nei capitoli seguenti Benny Morris ripercorre la storia delle soluzioni monostatuale e bistatuale, chiarendo in primo luogo che cosa fosse la Palestina alla fine dell'ottocento ("non era un'entità politica unitaria, singola e isolata, ma era suddivisa in distretti, ciascuno amministrato da una capitale che risultava sempre molto distante. (...) In altri termini, sotto gli ottomani l'area tradizionalmente nota come Palestina (Eretz Yisrael in ebraico e Falastin in arabo) era politicamente e amministrativamente indefinita, e i suoi abitanti, musulmani, cristiani ed ebrei, di rado si definivano 'palestinesi'), per poi mostrare come queste diverse soluzioni siano state accolte - sostenute o combattute - tra gli ebrei sionisti e tra gli arabi. Non è il caso di ripetere qui la varietà di posizioni e di proposte avanzate negli anni venti e trenta - nel periodo che intercorre, grosso modo, tra la Dichiarazione Balfour e i suggerimenti della Commissione Peel - riguardo all'assetto da dare alla Palestina storica, perché chi ne fosse interessato potrà scoprirle in dettaglio nel saggio di Morris. Sta di fatto, però, che allora tutte le discussioni e tutti i suggerimenti - dai progetti massimalisti dei sionisti di Jabotinskij a quelle binazionali d'impronta marxisteggiante del gruppo sionista Hashomer Hatza'ir - vertevano su un territorio che era ancora da dividere e la cui definizione politica era ancora una possibilità. Dopo la dichiarazione dell'Onu del 1947, tuttavia, la grande maggioranza dei sionisti accetta la spartizione e la creazione dello stato ebraico di Israele su una porzione ridotta, certamente ben lontana dalle speranze dei massimalisti, che volevano una soluzione monostatuale che comprendesse l'intera Palestina. Un atteggiamento realista, da parte loro: meglio avere un porto sicuro che nulla del tutto.Da parte araba, invece, l'idea della duplice nazionalità all'interno di un singolo stato non ha mai avuto molta presa, ma del resto nemmeno la coesistenza di due stati in seguito a una spartizione "era considerata inaccettabile dai leader arabo-palestinesi e dalla maggioranza del popolo che vi si affidava". Le cose non cambiano molto nemmeno con la nascita dell'Olp - nel 1964, quando la Cisgiordania era occupata dalla Giordania e Gaza dall'Egitto -, che nella sua carta fondamentale ribadisce invece il suo progetto eliminazionista nei riguardi di Israele. Anche quando in seguito Arafat si pronuncia a favore di una soluzione bistatuale, lo fa sempre in maniera ambigua, adottando un atteggiamento conciliatorio per tranquillizzare l'Occidente, ma riconoscendo la necessità che "l'eliminazione di Israele si realizzasse in fasi successive e non in un colpo solo". Per quanto riguarda Hamas - che s'ispira all'islamismo fondamentalista dei Fratelli Musulmani, di cui è un'emanazione -, invece, non c'è neanche più questo pretesto, ma l'ammissione esplicita del desiderio di eliminare Israele e la presenza ebraica dalla zona, a prescindere dalltanto che c'è da chiedersi che cosa accadrebbe se costoro avessero la maggioranza all'interno di un ipotetico stato binazionale (che comunque non accetterebbero, perché non accetterebbero di spartire il potere su una "terra dell'islam" con degli ebrei).Dopo aver delineato la storia delle due diverse soluzioni, Benny Morris descrive in maniera succinta, ma senza trascurare passaggi essenziali, gli anni che vanno dal 1993 - con gli accordi di Oslo - al 2000, quando a Camp David l'allora primo ministro israeliano, Ehud Barak, fece numerose concessioni, tanto che si arrivò a pensare che ormai la nascita dello stato palestinese fosse imminente. Arafat, invece, rigettò tutte le proposte, non concedendo nulla in cambio. L'interpretazione di questo fatto può essere duplice: da un lato si poteva pensare che Arafat volesse semplicemente alzare la posta, dall'altro che non fosse affatto intenzionato ad avere uno stato palestinese, ma volesse semplicemente far naufragare i negoziati (cosa, peraltro, suffragata dall'impennarsi degli attacchi terroristici antecedenti e successivi, con la cosiddetta "seconda intifada").Alla fine del suo saggio, Benny Morris avanza una soluzione al dilemma due stati/uno stato. Escludendo, di fatto, la soluzione "stato binazionale" (che, anche per via della pressione demografica araba, finirebbe per diventare un altro stato arabo - probabilmente dominato dai fondamentalisti islamici - in cui gli ebrei non sarebbero tollerati), esisterebbe una soluzione bistatuale percorribile, che ovvierebbe anche all'obiezione (fondata, secondo Morris) secondo cui uno stato di Palestina limitato ai 5.000 chilometri quadrati della Cisgiordania e di Gaza non potrebbe "funzionare". Si tratta di una federazione giordano-palestinese: già oggi il 70% della popolazione di Giordania è "palestinese". In questo modo sarebbe anche possibile l'assorbimento di quei profughi palestinesei che ora vivono in Siria e in Libano, privi di ogni diritto di cittadinanza (diversamente dagli ebrei che, espulsi dagli stati arabi, hanno ottenuto subito l'integrazione e la cittadinanza dello Stato di Israele). Naturalmente, perché questa ipotesi possa realizzarsi, occorre il consenso degli attori in gioco - Giordania inclusa - e, soprattutto, la rinuncia, da parte degli arabi, del fondamentalismo islamico e dei progetti eliminazionisti nei confronti di Israele. Personalmente non so quanto questa via sia praticabile: il saggio di Benny Morris è di tre anni fa, antecedente alla cosiddetta "primavera araba", che ha mostrato, invece, un esacerbarsi dell'odio anti-israeliano. Comunque sia e comunque vadano le cose, il saggio di Benny Morris è un ottimo "bigino" per impossessarsi delle informazioni fondamentali e dei dati storici relativi alla questione.7 nov. http://cadavrexquis.typepad.com/

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