giovedì 10 novembre 2011

Joann Sfar: “Così disegno le inquietudini dell’anima”

Joann SfarSbarca in Italia Le Chat du Rabbin (Il Gatto del Rabbino), pellicola d'animazione tratta dall'omonima miniserie a fumetti del geniale disegnatore francese Joann Sfar. Il film, in lingua originale e con sottotitoli, sarà proiettato questa sera in anteprima nazionale allo Spazio Oberdan a Milano. Nell'opera si racconta la storia di un gatto dotato del dono della parola e innamorato della figlia di un rabbino. L'uomo cercherà di insegnare al felino tutti gli atteggiamenti che dovrebbe tenere ogni buon ebreo, ma con scarsi risultati.

“È uno dei miei problemi: io scrivo molto più velocemente di quanto disegni. Ho una specie di angoscia nevrotica che mi spinge a scrivere sempre”! È Joann Sfar che lo dice, con il suo sorriso, con il suo sguardo profondo, ci racconta di come la sua mano fatata corre sempre sulle pagine di qualche taccuino. Scrive, scrive, scrive, ma anche disegna, disegna ,disegna. Pagine di diario quotidiano, che diventano cahier de voyage, manuale di filosofia o saggio sull’arte, a seconda dell’estro, della situazione, e che vengono meticolosamente raccolte e pubblicate in volumoni ponderosi che ricordano i fiumi proustiani. Tutto diventa libro e tutto di una qualità e profondità inusuale di questi tempi. Ancora più inusuale se si pensa che si tratta per lo più di fumetto. L’arte più popolare e anche quella meno valutata in assoluto. Sfar ha da poco compiuto quarant’anni, ha due figli, una vita complessa come tutti, ma una capacità creativa inusuale, compulsiva che lo ha portato a produrre una quantità strabiliante di pubblicazioni. Una lista così lunga di libri, album a fumetti, graphic novel, sceneggiature, diari e cataloghi di mostre da riempire svariate schermate sulla voce a lui dedicata su Wikipedia. Ci si chiede dove trovi il tempo per fare tutto, e non solo pubblicazioni cartacee, ma anche cartoni animati e film come Gainsbourg, vie héroique, dove da regista rivisita in modo immaginifico e surreale la biografia di Serge Gainsbourg. il gatto e il rabbinoIl celebre cantautore e poeta di origine russoebraica non è la sola vita illustre di cui si è occupato. Il pittore montparnos Jules Pascin, Marc Chagall, Antoine de Saint Exupery, Georges Brassens sono tutti accomunati da una recitazione che si allontana a poco a poco dalla loro vera essenza per giungere ad una sorta di metamorfosi in Sfar stesso. È questa la sua più grande capacità: approfittare di ogni spunto per poi portarci dove più gli piace, anche molto lontano da dove si era partiti. Joann Sfar è nizzardo di nascita, ma stabilmente parigino da almeno vent’anni. È nella capitale che ha cominciato la sua carriera ed è lì che la curiosità inestinguibile per tutto gli stimola un appetito pantagruelico che gli permette di spaziare dalla tradizione ebraica all’heroic fantasy, dal romanzo gotico alla filosofia greca. È a Parigi che lavora e dove si è sposato, ma le sue radici sono piantate nel cuore degli ebraismi europei, sefardita e ashkenazita. I nonni nordafricani da un lato e quelli polacchi dall’altro a sostenere i pilastri della sua poetica.
Come mai la cultura ebraica trova nella Bande dessinée (il fumetto francese) un’espressione particolarmente ricca e fortunata e dove, secondo lui ne possiamo trovare la ragione. Non saprei - dice Sfar - per ragioni religiose non ci sono stati grandi pittori ebrei prima dell’inizio del ventesimo secolo (o almeno ce ne sono stati pochissimi). Nei primi anni del secolo scorso si è sviluppata in Russia una corrente artistica alla quale appartiene anche Chagall. Questa, per ispirarsi, ha attinto sia al mondo onirico degli ebrei, che al quotidiano della loro vita rurale in quel paese. Questi disegnatori, grafomani e pittori hanno scelto di esprimersi attraverso disegni “umili”, disegni che raccontano, illustrazioni, attraverso la creazione di caratteri tipografici, attraverso i disegni umoristici e il fumetto. Penso che ci sia stato, all’inizio del ventesimo secolo, il tentativo di creare un’arte ebraica europea. Mi piacerebbe ripercorrere quella strada, ripartire da quel solco tracciato. Io mi sento molto vicino ad autori come Will Eisner o Jack Kirby. Ma si tratta solo di giudaismo? Io amo altrettanto Segar (l’autore di braccio di ferro n.d.r.) o i Peanuts. Quello che amo di loro è che utilizzano questa “arte povera” (lo dice in italiano) che è il fumetto per raccontare delle storie ambiziose. La sua dichiarazione d’appartenenza all’ebraismo è totale, cominciando dal suo nome pseudonimo (Sfar- Sofer), così evocativo, a un orecchio ebraico, di colui che perpetua la memoria con l’atto di scrivere. Il fumetto per lei è anche una forma di calligrafia? In ogni modo io scrivo per scrivere. Fidandomi delle parole, e non fidandomi troppo della seduzione pagana delle immagini. Quindi, i miei fumetti sono una contraddizione continua. È anche un dialogo costante con degli amici che non ho mai incontrato, come Hugo Pratt, come Milton Canniff. Ma effettivamente, credo che mi piacerebbe che il mio lavoro dialogasse con gli scritti di Phillip Roth o di Jonathan Safran Foer, o di Michael Chabon. Mi sento anche molto vicino a Haim Potok. Amo ogni tipo di ebreo, tanto quello religioso che il miscredente. Amo l’erranza ebraica, la amo soprattutto quando sembra totalmente assurda e disperata. Il suo disegno, che sintetizza molto bene la rapidità del tratto e una profonda conoscenza della storia dell’arte, soprattutto del ventesimo secolo, come è stato percepito dal pubblico, in genere molto conservatore, soprattutto nei primi tempi della sua carriera? Quando frequentavo l’Accademia di Belle arti, pensavo che i corsi di disegno fossero più importanti delle lezioni di storia dell’arte, oggi non ne sono più sicuro. Questa dimensione di dialogo, di gioco, è essenziale. Anche Pratt faceva in questo modo, spargere tra i suoi disegni parole d’amore per i pittori del passato, rinviando i lettori a una lunga catena di artisti. Non per insegnare! Piuttosto per aprire un cammino misterioso. Il fumetto è un’espressione e un linguaggio molto accessibile, ma se lo esploriamo con attenzione, possiamo trovarci dei codici, delle cose molto elevate. Esiste un esoterismo del disegno, delle linee che afferriamo solo quando conosciamo effettivamente il disegno e che possiamo trasmettere a nostra volta. È una confraternita, quella dei disegnatori. Io mi sento nello stesso monastero di Quentin Blake o di William Steig, e anche se non conosco personalmente Bonnard o Loutrec, intrattengo con loro un dialogo molto intimo. Insieme ad altri autori (David B., Marjanne Satrapi, solo per citare qualche esempio) avete compiuto una rivoluzione copernicana nel mondo dal fumetto, che sbocca ad una espressività originale, spogliata delle inibizioni, lontana mille anni dal “cinéma de papier”, ossia da quel fumetto che scimmiotta il cinema, ne segue i temi e gli stili. Come è cominciato tutto questo? Nessuno voleva pubblicarci, quindi ci siamo messi a lavorare tutti assieme e così è nata l’Association. Non penso comunque che siamo stati dei rivoluzionari, visto che ciascuno di noi ha vecchi maestri che rispetta molto. Ma noi abbiamo per il fumetto un ambizione letteraria. Il fumetto non è un romanzo meno bello, è un romanzo più complesso. Ma bisogna accettare di creare un disegno che non doni tutto, che faccia lavorare il lettore, che doni del mistero. E infine bisogna avere delle cose da raccontare. Tornando al mondo ebraico, nelle sue storie troviamo tanto l’identità sefardita quanto quello ashkenazita, raccontate in tutti i loro molteplici aspetti. Ma nella sua scrittura, la diaspora nordafricana e gli sthetl vivono a stretto contatto con mondi fantastici a volte gotici, a volte “fantasy”. Tolkien e Torah possono essere effettivamente così vicini? No. Tolkien è molto cristiano, ma anche molto sudafricano. Io voglio fare della “chassidic fantasy”! Mi viene in mente una frase di Chagall che diceva “Sapete, gli angeli, non sono di mia immaginazione, sono quello che mi è stato trasmesso e sono molto concreti, tanto reali quanto le case del villaggio”. L’immaginario, è un materiale tanto concreto quanto le pietre. È quello che abbiamo, quello sul quale lavoriamo. Il mestiere di scrittore è un gioco, è basato sulle associazioni d’idee. Scrivere e disegnare è accettare di andare costantemente avanti e indietro tra un mondo infantile e una lettura del mondo molto complessa.Giorgio Albertini, Pagine Ebraiche, novembre 2011

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