domenica 20 novembre 2011

Trasmettere una storia alla maniera di Omer Fast

"Ero un pittore spaventoso". Parla l'israeliano che sarà ospite a "Lo schermo dell'arte" con il film "Talk Show"

Omer Fast è dai primi anni Duemila uno degli artisti più apprezzati del mondo: sue opere figurano nelle collezioni permanenti di MoMa, Guggenheim, Tate Modern, National Galerie di Berlino, Hamburger Bahnhof; ha vinto fra gli altri il premio della Whitney Biennal, ed è a quella di Venezia in corso con un film in cui intervista un operatore di droni. Il suo mezzo è il cinema, col quale indaga i meccanismi dello storytelling, la diffusione e le mutazioni di storie vere quando passano da una fonte all’altra. 42 anni, nato a Gerusalemme, formatosi negli Usa, dal 2001 residente a Berlino, Fast è ospite dello “Schermo dell’arte” 2011 (21-24 novembre, Odeon; www.schermodellarte.org) con Talk Show, il film-installazione su multi schermo a Cango (via S. Maria 23, sabato 19 ore 18 a inviti; fino al 3/12, ore 15, 16.30, 18; domenica 20 ore 11.30 l’incontro con l’artista) che replica impeccabilmente il format tv nel quale sei attori (fra loro anche Jill Clayburgh) danno ognuno la propria versione della tragica vicenda del giornalista free lance americano Steven Vincent, morto in Iraq, di sua moglie Lisa Ramaci e di Noor, la traduttrice irakena di Vincent, che lo aiutò in modo decisivo nelle sue sconvolgenti inchieste di guerra sulle relazioni fra polizia di Stato e terrorismo, e sopravvisse al sequestro nel quale il giornalista rimase ucciso prima di riuscire ad emigrare, grazie a Lisa Ramaci, negli Usa dove oggi è divenuta un’apprezzata giornalista.Dove è avvenuta la sua formazione e qual è stata?“Ho lasciato Israele quando ero ancora teenager, ho frequentato liceo e università a New York, dove ho studiato prima inglese poi belle arti e arti visive. Mia moglie è tedesca, ci siamo incontrati a New York e l’ho inseguita indietro fino a casa sua, a Berlino, dove viviamo felicemente insieme dal 1° settembre 2001”.Quando e come ha scelto che l’arte era la sua strada per esser parte di questo mondo?“Non l’ho mai presa come si prende una decisione, almeno non consciamente e di certo non così all’improvviso. Una carriera d’artista è qualcosa che comprendere solo in una visione retrospettiva: non prendi una licenza per farlo, firmi a malapena qualche contratto, non appartieni a un’azienda. Sei un “vero artista” solo quando sei morto e andato. Anche dopo centomila mostre il dubbio che non sia vero, che sia un errore e che sta tutto finendo, resta lì su di te. E adoro questa cosa”.Tempo, relazioni, linguaggio e storytelling mi paiono fondamentali nel suo lavoro: come ha scelto di concentrarsi su questi elementi e perché ha scelto di farlo attraverso il film?“Ero un pittore spaventoso, probabilmente perché cercavo ad ogni costo di mettere delle storie nei miei dipinti. Così quando finalmente ho mollato il pennello, ho goduto di una enorme libertà di pensare alla narrazione. Ho sperimentato scultura e concettuale, e poi mi sono comperato una videocamera e ho imparato da solo a usarla e a fare il montaggio. I miei primi lavori erano molto primitivi ma allo stesso tempo per me molto appaganti. Da allora il processo di apprendimento è stato graduale, finché non ho deciso di frequentare una scuola per imparare il lavoro. Ho finito per scegliere la narrazione filmica perché per me è il modo più sensibile e ricco per mettermi a confronto con i temi della contemporaneità”.Vuole raccontarci il suo metodo di lavoro per i film che gira? Come svolge le sue ricerche, sceglie un soggetto? Come scrive una sceneggiatura e come istruisce i suoi attori, come organizza il lavoro sul set?“La maggior parte dei miei progetti parte con qualcuno che mi racconta una storia: ne ho bisogno come un vampiro del sangue. Può essere un anonimo operatore di droni (come in Five Thousand Feet Is the Best, l’opera di Fast alla Biennale di Venezia 2011, ndr), una donna di casa del XVIII secolo e il suo schiavo incontrati in un museo di storia vivente, un medico di Gerusalemme testimone di un attentato. Sono molto attratto da chi è in grado di darmi una storia su tecniche e performance che mi sono ancora ignote; e mi attraggono con forza anche i soggetti in lotta con la società, qualche volta con violenza, sempre in modo problematico e da una prospettiva ideologica. Di solito trascrivo le nostre conversazioni e poi passo molto tempo sulla scrittura delle sceneggiature che includono le loro parole ma anche la mia reazione a loro come un tipo naif, come artista e entità fittizia, come truffatore. L’idea è quella di tessere una trama che intrecci fili documentari e possibilità immaginarie. Un approccio problematico, forse, se valutato secondo gli standard etici del Giornalismo, ma siccome mi nascondo nel mondo dell’arte posso sempre invocare la licenza poetica”.Fare film come i suoi deve comunque essere costoso: nel tempo della crisi globale come trova i soldi per finanziarli?“Normalmente i miei progetti sono sovvenzionati dalle istituzioni museali e di eventi d’arte che li commissionano. Non sono necessariamente costosi, ma se il budget è più grande del solito devo mettere insieme più finanziatori. Non di meno, i film d’arte sono patatine a confronto di quanto possono costare tv e cinema. I miei costi sono in linea col budget di uno spot per una conosciuta marca di dentifrici”.Quando e come ha scoperto la storia di Steven Vincent, Lisa Ramaci e Noor?“Ho incontrato Lisa Ramaci mentre cercavo un soggetto per il mio progetto Talk Show nel 2009, mi era stato commissionato da Performa 09, una biennale di arti performative che si svolge a New York e commissiona lavori con un pubblico ad artisti che di solito non lavorano nella dimensione dal vivo. La mia idea per Performa era riprodurre il format di un talk show su un palco facendone però un crescente gioco di memoria, una prova performativa che racchiudesse al suo interno un mito che avrebbe sostenuto l’attenzione di una platea. Un ospite della vita reale sarebbe stato invitato a raccontare una storia vera, senza che pubblico e ospite sapessero nulla né dell’ospite né della sua storia. Quando il testimone finisce di narrare, l’ospite prende il suo posto e ripete ad libitum la storia quanto più vicina all’originale gli è possibile al pubblico e al performer successivo. A causa dei limiti del cervello umano, alcune cose vanno inevitabilmente perdute, trascurate, cancellate o abbellite durante la prima recitazione. Questo va avanti alcune volte finché la storia passa attraverso sei persone che non avevano alcuna idea della versione originale. Alla fine la narrazione si trasforma in una cosa grottesca che frana su se stessa ma nondimeno mantiene origini reali. Durante tutto ciò il pubblico, sperabilmente, resta seduto al suo posto per seguire, un po’ come gli dei dell’Olimpo, l’evoluzione della storia dal vivo e la sua accelerazione. A volte i risultati sono stati assurdi e allarmanti – come in una tragedia personale che lentamente diventa una commedia collettiva. Altre volte il processo è stato doloroso da seguire – mentre certi dettagli crescevano di significato, altri venivano annullati o sensazionalizzati. Per me è stato straziante perché era tutto dal vivo e improvvisato: ero eticamente e artisticamente responsabile di quanto stava accadendo ma non ero in grado di controllarlo”.Vuole parlarci di Five Thousand Feet Is The Best: non deve esser stato facile intervistare un operatore di droni, anche solo per ragioni di segreto militare… “E infatti non lo è stato. Abbiamo provato attraverso canali ufficiali ma siamo rapidamente stati rispediti indietro. Poi abbiamo pubblicato un annuncio sulla Craig’s List a Las Vegas e ci sono giunte diverse risposte. Ma siamo anche stati velocemente chiamati dall’Fbi che aveva rintracciato il nostro numero di telefono attraverso l’I.P. del nostro computer, e questo malgrado non avessimo reso noti né i nostri nomi né i telefoni, Dopo la loro chiamata tutti quelli che avevano risposto sono come spariti, tranne due: un operatore di droni che aveva era appena uscito dal programma dopo sei anni, e un altro che, di malavoglia, aveva accettato che un suo amico ci parlasse, come un ventriloquo, via skype. Durante tutte le nostre conversazioni, avvenute in un albergo di Las Vegas, fu difficilissimo parlare delle cosiddette “missioni di fuoco dal vivo”. Abbiamo dovuto, come dire, danzare un po’ per arrivarci, e spesso fermarci o abbozzare fra mezze parole e mezze verità”.Lei ha detto una volta: “nell’atto di raccontare una storia risiede una verità”. Che tipo di verità ha trovato col suo lavoro d’artista?“La mia nozione di verità è probabilmente più letteraria che giornalistica o empirica. Cerco di raccontare storie che siano in relazione col mondo reale, ma che, allo stesso tempo, parlino a fantasie e paure del suo autore. I “ritratti” che perciò fornisco col mio lavoro sono inevitabilmente compromessi, ambigui, ambivalenti, e molto spesso autocritici, autoriflessivi e in moto verso varie direzioni allo stesso tempo. Così quando l’operatore di droni parla d’una violenza molto poco coperta dai media, vediamo immagini che sono ovviamente messe in scena, rappresentate, e in modo sbagliato. C’è quindi un gap fra il suo testimone e le avvincenti ma non di meno difettose immagini che vengono mostrate. È esattamente in questo gap che mi piace muovermi, e mostrarlo è la verità che inseguo”.Crede che l’arte possa contribuire a migliorare il mondo in cui viviamo?“Nella maniera più assoluta. Ma deve saper essere seducente”. 18 nov. http://firenze.repubblica.it/

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