Nazareth. Nell’orfanotrofio di Seforis la speranza è servita
Ai fornelli ci sono delle ragazze arabe musulmane su cui vigila una suora cattolica. Nella stanza a fianco le verdure vengono affettate da Orith Kolodny, ebrea italiana e due suoi amici ebrei di Tel Aviv. Poco più in là decide di darsi da fare anche Massimo Portaleone, di origine romane ma di passaporto israeliano, in passato graduato dell’esercito e combattente contro Hezbollah in Libano. Alle prese con frullatori e impastatrici ha bisogno dell’aiuto di Marina Spadafora, ex stilista di grido oggi guru di moda etica, buddista.Ci sono da fare dei biscotti a forma di topo. Così si decide di far partecipare anche i 75 bambini che vivono nella struttura. È un esplosione di colori. Da un lato le grida dei bimbi, dall’altro il romanesco dell’artista Alessandro Valeri. È qui per fare scatti da usare in una sua mostra a Milano. E invece decide di mettersi a impastare in mezzo ai piccoli. Sulla porta le educatrici, arabe laiche, rinunciano a mantenere il controllo della situazione.Il frastuono richiama il direttore, Nabil, arabo cristiano che butta dentro la testa e scoppia in una risata. Ma una cucina da sola può riuscire dove negoziati di decenni hanno fallito? No certo. Non è la cucina ad essere magica. Anzi la magia non c’entra per niente. «Sono le sorelle. Queste suorine sono un dono di Dio», spiega Portaleone. Qualcuno, spaesato gli chiede se abbia deciso di convertirsi, «mai, ma comincio a credere che Dio ci guardi tutti: ebrei, cristiani e musulmani». Suor Clementina, la priora, mi indica un’altra religiosa che sta consolando una bimba in lacrime. «Suor Rosa è il più grande miracolo di questo posto», mi sussurra, «non parla arabo, ma si fa capire dai bambini».L’appello e la festa.La comunità d’accoglienza di Seforis è gestita da tre suore, due italiane e una egiziana, in collaborazione con una trentina di educatori, assistenti sociali, psicologi e una ventina di volontari. La struttura ospitante è molto antica e ha bisogno di alcuni interventi di manutenzione straordinaria. Il rischio è la chiusura.La direzione ha lanciato un appello e a raccoglierlo è stata Hope onlus, che si è incaricata di realizzare una nuova cucina suddivisa in quattro locali con le relative apparecchiature, di predisporre il sistema antincendio ora inesistente, di ristrutturare l’area adibita ad alloggio per le bambine.Un progetto di ristrutturazione che, dentro e fuori dalla cucina, si è trasformato anche in una festa. Siamo in pieno Kippur, festa ebraica in cui si deve stare in silenzio e fare memoria dei peccati. Ma è anche il compleanno di suor Clementina. Così le ragazze della comunità decidono che bisogna festeggiare. Tutto il kibbutz è investito da musica dance martellante. Balli sfrenati scoppiano nel piazzale di fronte alla struttura. Orith Kolodny si avvicina a Elena Fazzini, presidente di Hope onlus, «Che contrasto incredibile...».È l’ultima sera ed è ormai tempo di fare le valige. Sotto la porta della camera di una volontaria di Hope onlus spunta un biglietto. È un’ospite dell’orfanotrofio. C’è una sua fototessera pinzata con una frase: «Don’t forget me».Non dimenticarmi. Non c’è pericolo, non può capitare. Tornano alla mente le parole di Luigi Mattiolo, l’ambasciatore italiano ospite all’inaugurazione della cucina: «Questo posto non è solo una speranza. È un esempio che va esportato. Deve uscire dai cancelli di questo kibbutz».di Lorenzo Maria Alvaro, http://www.yallaitalia.it/
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