sabato 10 marzo 2012


Medinat Weimar, semiseria utopia

Un progetto che gioca sul filo dell’ironia, del paradosso e dell’assenza di certezze. Ma guai a farsene beffe perché l’idea di fondo è molto seria e sempre più apprezzata come dimostra il crescente consenso che circonda Medinat Weimar, il movimento politico per la creazione di uno Stato ebraico in Turingia con la città di Weimar come capitale. In Germania sta ottenendo grande visibilità, campeggia insistentemente sulle pagine dei giornali e nel dibattito pubblico. Dall'inizio di gennaio dispone inoltre di uno spazio all'interno del Museo ebraico di Berlino, uno dei più conosciuti e visitati al mondo. Il manifesto politico del gruppo, imperniato sui principi dell'antifascismo e dell'autodeterminazione, si pone come obiettivo una battaglia politica su due fronti: convincere i tedeschi a dare la Turingia agli ebrei e questi ultimi a fare ritorno nella rinnovata terra di Germania per fondarvi il loro Stato. Alcuni anni fa Mahmud Ahmadinejad ha proposto polemicamente che sia l'Europa a concedere una parte del suo territorio per ospitare lo Stato ebraico. “Se astratta dal contesto antisemita del discorso del presidente iraniano – questa la controprovocazione del gruppo – l'idea può essere interessante”. Tutto inizia nel 2008. L'artista israeliano Ronen Eidelman presenta la sua tesi di laurea all'Accademia delle Belle Arti di Weimar, un programma di studio nell'ambito dell'arte nello spazio pubblico che prevedeva la creazione ex novo di un movimento politico inteso appunto a fondare un nuovo Stato ebraico in Turingia. L'inconsueta ricerca di un giovane laureando sul rapporto tra l'arte e la comunicazione politica ha giorno per giorno acquisito dimensioni inaspettate, mobilitato risorse, persone, energie, elaborato una struttura ideologica articolata e rispettabile, conquistato pian piano la curiosità del pubblico e l'attenzione di istituzioni culturali e media. Si è insomma costituita in movimento. Medinat Weimar si propone come una via verso il superamento di molti gravi problemi del mondo, su tutti tre: il conflitto mediorientale, il trauma del popolo ebraico e il senso di colpa tedesco. Opportunità ad un tempo per i tedeschi, di convivere con gli ebrei e dividere con loro il suolo che fu del terzo Reich, chiudendo così definitivamente con il loro passato; e per gli ebrei, o almeno molti di loro, di ritrovare le proprie radici, un tempo estirpate da tutta l'Europa orientale. La Turingia è il luogo adatto. Se da una parte questa regione è testimone di un millennio di vita ebraica, giacché le prime comunità vi si insediarono nel X secolo (a Erfurt si può ancora ammirare una sinagoga risalente al XII secolo), dall'altra ha una altrettanto lunga storia di antisemitismo, purtroppo non conclusa. La Turingia infatti, già patria dell'antigiudaismo luterano in età moderna, poi roccaforte del partito nazionalsocialista ai suoi albori negli anni Venti, è oggi il centro geografico del (crescente) fenomeno neonazista. Medinat Weimar vuole combattere non solo l'antisemitismo ma anche il falso filosemitismo, ovvero quella solidarietà pelosa nei confronti di ebrei e israeliani con cui molti tedeschi benpensanti si puliscono la coscienza, o almeno la faccia. Medinat Weimar persegue un'integrazione genuina e consapevole degli ebrei nella società tedesca, senza pregiudizi né ipocrisie.Eidelman ha spiegato che Weimar “è un luogo dal forte valore simbolico per la Germania , tra i maggiori centri della sua vita culturale e politica da secoli (si pensi a Goethe, Schiller, alla Weimarer Republik, al Bauhaus). È dunque il luogo giusto per il Tiqqun Deutschlands, la riparazione o redenzione della Germania”. Aggiunge poi, a persuadere i locali ancora scettici, una considerazione di ordine pratico. “L'economia della Turingia – dice – è stagnante e la decrescita demografica forte. I giovani emigrano in massa e mancano i flussi migratori che coinvolgono invece altre zone della Germania. Una forte immigrazione, quale deriverebbe dalla nascita di uno Stato ebraico, risolverebbe molte questioni, non solo culturali”. Ricordi, chi trova il piano stravagante, che nella storia dell'idea di Stato ebraico non mancano i precedenti. Il Piano Uganda, proposto dallo stesso Theodor Herzl al sesto Congresso sionista nel 1903, fu per anni preso in seria considerazione e una spedizione venne mandata in esplorazione del territorio. In seguito furono inviate commissioni anche in Cirenaica, in Angola e in Iraq. Di qualche anno seguì il progetto Glaveston, che prevedeva la creazione di insediamenti ebraici negli Stati Uniti meridionali. Tra il 1907 e il 1914 9mila ebrei europei si trasferirono in Texas. Nel 1939 una proposta venne direttamente dal Ministero degli Interni del governo Roosevelt: trasferire gli ebrei europei in Alaska. In questo caso si trattava più di una soluzione d'emergenza per salvare gli ebrei che dell'aspirazione a uno Stato nazionale, ma non mancò chi si fece suggestionare dall'idea di una terra non di latte e miele ma di ghiaccio e salmone.Il piano Madagascar provenne invece da parte nazista. I gerarchi hitleriani, in una fase ancora ‘moderata’ della loro politica antisemita, vagliarono l'ipotesi di trasferire la popolazione ebraica che ‘ammorbava’ l'Europa sull'isola dell'Oceano indiano. Anche Stalin ebbe la sua idea di Stato ebraico, l'Oblast autonomo di Birobidzan, ovvero la Sion sovietica. Nel disegno del leader bolscevico ogni etnia che popolava l'Unione Sovietica avrebbe avuto un territorio in cui amministrare autonomamente la nuova vita socialista. Agli ebrei toccò l'inospitale Manciuria. Il risultato della ‘tenace opera di convincimento’ portata avanti dalla burocrazia bolscevica si poté misurare verso fine degli anni Quaranta. Allora vivevano a Birobidzan circa 30mila ebrei – naturalmente con loro scuole, sinagoghe, istituzioni. Si stampava perfino un giornale in yiddish. Con la liberalizzazione dell'emigrazione negli anni Settanta il numero degli ebrei manciuriani calò vistosamente, ma della vivace comunità rimangono ancora oggi tracce. A differenza di tutti quelli che l'hanno preceduto, il piano di Eidelman è pensato e agito con uno Stato d'Israele già esistente. Come si pone nei suoi confronti? Tra i principi fondanti di Medinat Weimar è detto chiaro e tondo: “Non vogliamo sostituire Israele, solo dargli un fratello minore europeo”. È postsionismo? “No – risponde l'ideologo di Eretz Thüringen – non amo queste definizioni ma dovendo scegliere preferisco presionista, nel senso che guardo alle origini, all'idea di emancipazione che animava Theodor Herzl”. “L'idea – spiega – si colloca in maniera trasversale a tutte le divisioni ideologiche, culturali e religiose tanto del mondo ebraico quanto di quello tedesco”. Molti obiettano che non sarà facile condurre il progetto in porto. “I sogni utopici aprono spazi di libertà”, la risposta. Ronen Eidelman è un artista prima che uno statista. Il suo lavoro ha a che fare con l'immaginazione, più che con il realismo politico. La sua è utopia postmoderna, concepita in un contesto povero di certezze, in particolare nel campo delle tradizionali categorie politiche. Qual è oggi, nel mondo globalizzato, il senso dello Stato nazionale? Quale quello dell'identità di popolo?Nell'idea dello Stato ebraico in Turingia c'è il gusto dell'ambiguità, dell'ironia dissacrante come strumento di critica del dogma. La voglia di confondere, mostrare la fragilità della doxa invalsa, dei confini e dei tabù. Rendere insomma chiaro che nulla è chiaro. Medinat Weimar non è un movimento realistico. È piuttosto una provocazione, un tentativo di sfumare i confini fra le posizioni estremiste di ideologie fra loro opposte (antisemitismo, nazionalismo, sionismo e antisionismo) mostrandone la comune riducibilità all'assurdo. Lo slogan: “Bratwurst kasher ora!Manuel Disegni, Pagine Ebraiche, marzo 2012

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