giovedì 12 aprile 2012


"La menzogna e la disfatta di Günter Grass"

diBernard-Henri Lévy(nella foto) ( Corriere della Sera 11 aprile 2012)

C'è la Corea del Nord con il suo tiranno autistico, dotato di un arsenale nucleare ampiamente operativo. C'è il Pakistan, di cui nessuno sa quante ogive nucleari possieda, né dove si trovino esattamente, né quali garanzie abbiamo di non vederle cadere, un giorno, nelle mani di gruppi legati a al Qaeda.C'è la Russia di Putin, che è riuscito nell'impresa di sterminare, in due guerre, un quarto della popolazione cecena. C'è il macellaio di Damasco, con i suoi 10.000 morti, e con una testardaggine criminale che minaccia la pace nella regione. C'è l'Iran, certo, i cui dirigenti hanno fatto sapere che le loro armi nucleari, quando ne disporranno, serviranno a colpire uno dei loro vicini.Insomma, viviamo su un pianeta dove c'è l'imbarazzo della scelta su quale sia lo Stato più ufficialmente piromane, che prende apertamente di mira i suoi civili e i popoli circostanti, e che minaccia il mondo di conflagrazioni o di disastri senza precedenti da decenni.Ebbene, ecco che uno scrittore europeo, uno dei più grandi e più eminenti poiché si tratta del premio Nobel di letteratura Günter Grass, non trova niente di meglio da fare che pubblicare un «poema» in cui spiega che a pesare sulle nostre teste c'è soltanto una minaccia seria; minaccia che viene da un piccolissimo Paese, uno dei più piccoli del mondo, anche uno dei più vulnerabili e, sia detto en passant, un Paese democratico: lo Stato di Israele.Tale dichiarazione ha confortato i fanatici che regnano a Teheran e che, attraverso il loro ministro della Cultura, Javad Shamaghdari, si sono affrettati a celebrare l'«umanità» e lo «spirito di responsabilità» dell'autore di «Tamburo di latta». È stata oggetto di commenti estasiati, in Germania e nel resto del mondo, da parte di tutti i cretini pavlovizzati che confondono il rifiuto del politicamente corretto con il diritto al lasciarsi andare e a liberare così i miasmi di pensiero più pestilenziali. Ha dato luogo al solito e noioso dibattito sul «mistero del grande scrittore che può essere un codardo o un mascalzone» (Céline, Aragon) o, peggio, sulla «indegnità morale», o la menzogna, che non devono mai essere criteri letterari (altrimenti si permette a una moltitudine di Céline o di Aragon in scala minore, di abbandonarsi all'abiezione).Ma, per l'osservatore di buon senso, la vicenda sollecita soprattutto tre semplici riflessioni. Il mistero, talvolta, della tarda età. Il momento terribile, che non risparmia le persone più illustri, in cui una sorta di anosognosia intellettuale fa cadere tutte le dighe che di solito trattengono lo scatenamento dell'ignominia. «Addio, vecchio, e pensami, se mi hai letto» (Lautréamont, «Maldoror», Canto 1°).Il passato dello stesso Günter Grass. La confessione che fece, sei anni fa, quando raccontò di essersi arruolato, a poco più di 17 anni, in una unità della Waffen SS. Come non pensarci oggi? Come non collegare le due sequenze? Fra il burgravio socialdemocratico che confessa di aver ricevuto un addestramento militare sotto il nazismo e il farabutto che oggi dichiara, come qualsiasi nostalgico di un fascismo divenuto tabù, che non ne può più di tacere, che quello che dice «deve» esser detto, che i tedeschi sono «già sufficientemente oppressi» (ci si chiede da che cosa…) per non diventare, inoltre, «complici» dei «crimini» presenti e futuri di Israele: il legame non è, purtroppo, palese?Poi, la Germania. L'Europa e la Germania. O la Germania e l'Europa. Il brutto vento che soffia sull'Europa e gonfia le vele di quello che bisogna ben chiamare neo-antisemitismo. Non più un antisemitismo razzista. Né cristiano. Nemmeno anticristiano. Né, veramente, anticapitalista, come all'inizio del XX secolo. No. Si tratta di un antisemitismo nuovo, che ha la possibilità di ridiventare udibile e, prima di essere udibile, dicibile, solo se riesce a identificare l'«essere ebreo» con l'identità cosiddetta criminale dello Stato di Israele, pronto a lanciare le sue saette sull'innocente Stato iraniano. È quel che fa Günter Grass. Ed è quel che rende questa vicenda terribilmente eloquente.Rivedo Günter Grass a Berlino, nel 1983, al compleanno di Willy Brandt. Lo ascolto, prima sul palco, poi a tavola, al centro di una piccola corte di ammiratori; ha i capelli folti e la parola facile, occhiali dalla montatura ovale che lo fanno somigliare a Bertolt Brecht, il grosso volto a soffietto che trema di finta emozione mentre esorta i compagni a guardare in faccia il loro famoso «passato che non passa».Ed ecco che, trent'anni più tardi, si ritrova nella stessa situazione di quegli uomini dalla memoria piena di vuoti, fascisti senza saperlo, ossessionati senza averlo voluto, che quella sera invitava a mettersi in regola con i loro inconfessabili pensieri reconditi: postura e impostura; statua di sabbia e commedia; il Commendatore era un Tartufo; il professore di morale era l'incarnazione dell'immoralità, che prendeva a sciabolate. Günter Grass, il gran luminare della letteratura, il «rombo» congelato da sessant'anni di pose e di menzogna, finisce di decomporsi ed è, letteralmente, quel che si dice una disfatta. Che tristezza.

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