giovedì 17 maggio 2012

Vittime

Da grande ammiratore di Roman Polanski – autore di pellicole straordinarie, che resteranno per sempre nella storia del cinema: da Rosemary’s baby a Luna di fiele, da Il pianista al recente Carnage – ho letto con grande interesse la sua intervista, pubblicata su la Repubblica della scorsa domenica 13 maggio, nella quale ripercorre le tappe salienti della sua intensa e controversa vita, costellata di arte e dolore, scandali e polemiche, successi e cadute: l’infanzia nel Ghetto di Varsavia, la madre persa ad Auschwitz, il padre a Mauthausen, la rapida conquista della celebrità, il massacro della giovane moglie Sharon Tate, incinta di otto mesi, e di quattro amici da parte della setta satanica di Charles Manson, l'arresto e la prigione con l'infamante accusa di aver abusato di una tredicenne, la fuga, il nuovo arresto a Zurigo, la prigione dorata in Svizzera, l’attuale vita di star in Europa e di ricercato in America, dove non può mettere piede, in considerazione dei suoi perduranti problemi giudiziari. Una vita che Polanski ha deciso di sintetizzare in un lungo film documentario, nel quale intende dare al pubblico la sua versione degli eventi che lo hanno visto protagonista.Sarà, certamente, un filmato interessante, anche se, spesso, quando gli artisti parlano della propria arte, non giovano alla forza di suggestione delle loro opere, che dovrebbe colpire lo spettatore senza il filtro di spiegazioni o “interpretazioni autentiche” offerte dal creatore dell’opera. L’intervistatore, per esempio, chiede al regista quale sia il senso della scena finale de Il pianista, consistente in un muto sguardo interrogativo tra il musicista ebreo, ormai libero, e l’ufficiale nazista - che aveva, inspiegabilmente, deciso di salvargli la vita -, divenuto prigioniero. Ma non saranno le parole di Polanski a permetterci di cogliere il senso di tale suggestiva immagine, al cui eloquente silenzio non è dato aggiungere alcuna didascalia esplicativa.Polanski merita, come raffinato artista, la nostra ammirazione. Come figlio, marito e padre di persone colpite da atroci violenze, la nostra più piena solidarietà. E, come testimone della Shoah, in grado di descriverne l’orrore in un’opera di rara poesia, merita la nostra gratitudine. Non merita, però, comprensione per il grave delitto di cui si è reso responsabile, e, soprattutto, per la sua perdurante scelta di rifuggire dal suo debito con la giustizia. E la sua autodifesa, nel contesto di un discorso così sincero, nobile e dolente, in cui si parla di Shoah, di violenza e di vittime innocenti, appare decisamente stonata. Un giudice americano, dice il regista, si sarebbe fissato a volerlo mandare in prigione; “una volta assunte le mie responsabilità, non ho avuto mai problemi con Samantha Geiger”, aggiunge, a proposito della vittima della sua violenza, “mentre entrambi ne abbiamo avuti con la persecuzione dei media”. Frasi, queste, che mostrano una buona dose di cinismo. Come se la violenza carnale su un’adolescente possa essere sanata da una successiva ‘riappacificazione’ tra aguzzino e vittima. E come se l’interesse dei media sia dovuto a una morbosa invadenza dei giornalisti, e non debba invece essere messo in conto, anch’esso, al responsabile del delitto, e alla sua scelta di fuggire.Polanski non sarà certo il primo, né l’ultimo latitante a non voler tornare in prigione. Né ci sentiremmo di consigliarglielo, ognuno si regola, in queste cose, secondo la propria coscienza. Se vuole trovare delle scuse al suo comportamento, faccia pure. L’unica cosa che ci sentiremmo di chiedergli è di non mischiare – parlandone contestualmente - la rievocazione del terribile destino subito dai suoi genitori e da sua moglie con la vicenda di cronaca nera – certamente meno terribile, ma non per questo insignificante – in cui si è trovato coinvolto. In tutti e tre i casi, i ruoli delle vittime e dei sopraffattori sono ben chiari. E giudici e giornalisti, in tutti e tre i casi, non c’entrano proprio niente.Francesco Lucrezi, storico, http://www.moked.it/

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