domenica 30 settembre 2012

LA TRADUZIONE DELLA VULGATA TRASFORMA LA RABBIA PER I FALLIMENTI IN UN LAMENTO SENILE SULLA VANITÀ
La gioia dei doni affidati alla corrente 
 
di Erri De Luca
.21 settembre 2012 Pagina 57 Corriere della Sera
Chi è l' ebreo Kohèlet, detto Ecclesiaste all' estero? Per esclusione: non è un filosofo, non armeggia concetti astratti, non costruisce un sistema per ficcarci dentro, piegato e pigiato, il mondo creato. Non è vecchio né saggio. Porta nel nome una desinenza femminile ma resta di genere maschile secondo la grammatica ebraica del libro che porta il suo nome. All' inizio dichiara le sue generalità di figlio di Davide ma Davide è stato padre numeroso. Comunque a Kohèlet non sono mancati beni di fortuna, ampi locali a disposizione, un abbondante personale di servizio. Scrive e parla dall' esperienza del privilegio, proprio per questo il suo rammarico è la dichiarazione di fallimento di chi ha potuto sperimentare ogni vantaggio. È celebre il suo «vanitas vanitatum», vanità delle vanità, che non ha mai detto, né pensato. Glielo ha messo in bocca la traduzione latina dell' ebraico «hèvel havalìm». Come in altri casi di passaggio da quella prima lingua alle successive, si è trattato di un dirottamento in volo, piuttosto che di un trasferimento da una stazione all' altra. In ebraico esiste l' invano e il vano: Kohèlet li evita. La sua parola, «hèvel» coincide con il nome Abele (non esistono maiuscole in ebraico) e lui lo scrive a esempio di vita cancellata, buttata via senza valore e scopo. Quella prima esistenza sprecata dà a Kohèlet il nome al suo bilancio amaro: la vita è spreco supremo, lo spreco degli sprechi. Ma la traduzione detta Vulgata gli appiccica sopra la contraffazione di «vanitas vanitatum» e così Kohèlet l' arrabbiato diventa un lamento senile sulla vanità. È invece arrabbiato perché dall' alto della sua posizione ha sperimentato il meglio e ha cercato un appiglio per consistere in opere realizzate, in godimenti, in possedimenti. Ma non si è ritrovato esaudito in nessun traguardo e tutto è stato un andar dietro al vento. Allora in quale esperienza riconoscere un senso? Intanto in una evidenza: «il tutto ha fatto bello in un suo punto». Esiste un nucleo di bellezza in ogni elemento del mondo. Esiste un' energia della bellezza che pulsa in ogni attimo del tempo. Perfino la distruzione ha bisogno della sua forza. È bellezza il vento che ossessiona Kohèlet e soffia bollente dal deserto per ventidue volte nel suo breve libro, offrendo un nome al suo implacato affanno: tutto il suo agire è stato un tenere compagnia al vento. Schiacciante è la bellezza del sole, non quello che carezza la pelle dei bagnanti ma quello che grava sulla terra e sopra la schiena dei braccianti. Sotto il sole: «tàhat hashèmesh», in ebraico esce di labbra un soffio arroventato dalla più potente forza di natura. Sansone, il più dotato di esplosiva potenza fisica, è in sua lingua Shimshòn, nome costruito sulla parola «shèmesh», sole. Quale allegria si può estrarre da Kohèlet? Una da naufraghi, spiaggiati su un' isoletta australe, dove la vita è allo stato brado di felicità minute, che accadono veloci lasciando negli occhi il residuo di meraviglia di una stella cadente. E per consiglio urgente a un tu che da millenni sta in suo ascolto, Kohèlet lascia scritto: «Manda il tuo pane sopra i volti delle acque». Senza neanche sapere a chi andrà, offri il tuo bene al mondo, alla corrente. Qualunque pane tu possa donare, lascialo sopra i volti delle acque, alla loro distribuzione che in natura spinge all' uguaglianza. Le acque sono la più evidente immagine di livellamento. «Questo è il mio pane», disse del suo corpo colui che stava per affidarlo alla corrente del mondo e del tempo a venire. Senza arrivare alla misura del suo dono, ognuno può accogliere l' invito di Kohèlet. Perché? La sua risposta è: «perché in molti dei giorni lo ritroverai». Quel tuo dono ti verrà restituito molte volte in sovrappiù di giorni. Qui è annunciata la misteriosa, immensa, economia del dono, che spariglia ogni bilancio. Manda il tuo pane, partecipa del gesto che apre il pugno chiuso per offrire e imita così la mossa del germoglio che si schiude, del seme che si spacca, della nuvola che sparge il suo raccolto. Più che allegria, qui si manifesta una compiuta letizia, balsamo dei giorni.

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