domenica 30 settembre 2012
Tra
le attività dedicate al Dybbuk ieri e oggi nell’ambito di Torino
Spiritualità è stata ricordata l’opera lirica “Il Dybbuk” che
il torinese Lodovico Rocca ha composto (con libretto di Renato Simoni
tratto dal testo teatrale di An-ski) e che è andata in scena per la
prima volta al Teatro alla Scala di Milano nel marzo 1934. Che in un
contesto così prestigioso sia stata presentata un’opera tratta dal
testo di un ebreo, che non solo parla di ebrei ma è profondamente
radicata nella cultura ebraica, potrebbe sembrare (se non sapessimo
che le cose poi sono andate ben diversamente) un positivo sintomo di
interesse dell’Italia degli anni ’30 per l’ebraismo. Eppure
proprio in quel mese si verificavano alcuni eventi inquietanti. L’11
marzo 1934 a Ponte Tresa, al confine con la Svizzera, viene arrestato
un giovane ebreo torinese, Sion Segre Amar, che sta introducendo in
Italia a bordo della sua macchina riviste e volantini di Giustizia e
Libertà. Per caso, ha in tasca una circolare di un gruppo giovanile
ebraico, Onegh Shabbat, che svolgeva attività ricreative e
culturali. Nel giro di due giorni trentanove torinesi sono arrestati,
molti dei quali sulla base della lista di nomi contenuta nel
volantino. Per la maggior parte saranno rilasciati quasi subito, ma
quindici, una decina dei quali ebrei o di origine ebraica, sono
ancora in prigione alla fine di marzo, quando la notizia è
divulgata: 'Arresti
di ebrei antifascisti'
è il titolo che si può leggere il 31 marzo sulla prima pagina del
quotidiano La Stampa; segue il racconto dettagliato dei fatti con
tanto di nomi e cognomi degli arrestati. Si scatena una pesante
campagna antisemita; era la sera di Pesach, e Il Tevere titolava, con
tono canzonatorio, “L’anno prossimo a Gerusalemme, quest’anno
al Tribunale Speciale”. Siamo abituati a considerare quei fatti
(narrati con grande efficacia in molte pagine autobiografiche dello
stesso Sion Segre Amar) come un segnale di pericolo che molti ebrei
di allora non seppero cogliere. Come dobbiamo interpretare la
singolare coincidenza con il Dybbuk alla Scala? Un monito per noi
oggi? Un invito a diffidare dell’interesse per gli ebrei e per
l’ebraismo? O forse la messa in scena del Dybbuk è stata un caso,
un’eccezione che non dimostra nulla? O invece rappresenta un
barlume di speranza, il fragile sintomo di un legame mai spezzato
(tra cultura italiana ed ebraismo) che sarebbe tornato a rinsaldarsi
dopo la parentesi delle leggi razziste e della Shoah? Nella mia
incompetenza non saprei dire quale sia la risposta giusta, ma
certamente la terza mi sembra la più simpatica: vorrebbe dire che la
diffusione di una maggiore conoscenza di ebrei ed ebraismo, anche se
talvolta appare inutile nell’immediato, potrà dare i suoi frutti
nel futuro.Anna
Segre, insegnante,http://www.moked.it/
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La storia questa sconosciuta
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