mercoledì 17 ottobre 2012
Israele alle urne
La
notizia è della settimana appena trascorsa ma non ha sorpreso né
gli analisti né lo stesso grande pubblico: la diciottesima
legislatura della Knesseth si chiuderà anzitempo. Se la data della
sua naturale conclusione rinviava all’ottobre dell’anno entrante
il premier Benjamin Netanyahu ha deciso di accelerare i tempi,
dichiarando che le elezioni per il nuovo Parlamento si terranno
quanto prima, prevedibilmente entro i primi due mesi del 2013. La
motivazione addotta per dare corpo a tale decisione è
l’impossibilità di fare approvare una legge finanziaria dai
contenuti particolarmente marcati, con secchi interventi sulla spesa
pubblica, non potendo contare su una maggioranza sufficientemente
solida. Ma in realtà le ragioni sono molteplici e rimandano alla
strategia di fondo del leader del Likud che, in quest’ultimo anno,
è assurto a esponente senza troppi avversari nel mondo politico
israeliano. Plausibilmente Netanyahu vuole garantirsi un solido
seguito e, quindi, un elevato consenso, quando dovesse decidere una
volta per sempre di chiudere il dossier nucleare iraniano. Se negli
Stati Uniti a novembre la dovesse spuntare Mitt Romney, di contro ad
un pencolante Barack Obama, allora per la leadership israeliana le
opzioni e gli spazi di manovra potrebbero rivelarsi maggiori. Il tema
della sicurezza, com’è ampiamente risaputo, costituisce una
questione imprescindibile nel decision making d’Israele. Un fatto,
questo, che si riflette immediatamente sugli equilibri di governo.
Nei mesi scorsi il Primo ministro ha misurato gli assensi ma anche i
dissensi rispetto all’ipotesi di un first strike accelerato contro
Teheran. Più che l’opposizione di alcuni esponenti politici sono
state le riserve provenienti da settori dell’intelligence e
dell’esercito ad averlo indotto ad una diversa considerazione
l’intera questione dei modi e dei tempi per stoppare la minaccia
iraniana. Quest’ultima, peraltro, è strettamente connessa agli
sviluppi della politica interna di quel paese, il cui presidente
Mahmoud Ahmadinejad è prossimo alla scadenza del suo mandato, il
secondo, risultando quindi non più rieleggibile a norma delle leggi
elettorali. Netanyahu, che è un abile politico, vuole inoltre
avvantaggiarsi della crisi in cui versa da almeno tre anni Kadima, la
formazione politica a suo tempo capitana da Tzipi Livni, allora
considerata astro nascente del firmamento politico, destinato,
secondo certuni, a mietere successi e glorie ma poi repentinamente
scemato. Livni ha ancora un suo seguito ma ha perso il treno più
importante, quello che le derivava dall’essere la novità dello
scenario politico nazionale. Il capitale elettorale del partito
centrista è peraltro notevole, potendo al momento contare su
ventotto seggi al Parlamento, di contro ai ventisette del Likud. Ma
se qualche anno fa il secondo era dato in via di disfacimento, del
pari al Labur, oggi le parti si sono invertite: l’elettorato di
Kadima è in libera uscita e l’appetito dei suoi concorrenti non
può che esserne stimolato. Netanyahu questo lo sa bene, così come è
plausibile che voglia prendere più piccioni con una fava:
assicurarsi i voti dei delusi dall’esperienza centrista ma anche
stoppare anticipatamente la ricandidatura di Ehud Olmert, già suo
vecchio antagonista, la cui credibilità era stata appannata dalle
inchieste giudiziarie che lo avevano coinvolto ma dalle quali è poi
uscito pressoché indenne. La ritrovata verginità morale, e quindi
politica, dell’ex sindaco di Gerusalemme potrebbe infatti rivelarsi
particolarmente insidiosa qualora decidesse di porsi a capo di una
coalizione neocentrista, nel tentativo di rianimare quel che rimane
un’area che è altrimenti senza grandi speranze e che tuttavia può
offrire molti voti. In quest’ultima ipotesi confidano anche una
parte dei laburisti, che nella Knesseth uscente hanno solo otto
seggi. Per Netanyahu è quindi strategica la questione dei tempi: se
le elezioni si terranno entro quattro mesi i suoi potenziali
avversari non avranno molte possibilità di organizzarsi e, quindi,
di dare fiato alle trombe della riscossa contro un governo uscente
descritto dai critici come troppo radicale ed eccessivamente
condizionato dagli interessi delle diverse fazioni che ne sono
rappresentate al suo interno. Anche in ragione di ciò, e del suo
indiscutibile pragmatismo, per il premier uscente è importante
conquistare l’area centrista: non si tratta solo di portare a sé
un cospicuo capitale elettorale ma di riversarne il peso, ad elezioni
concluse, nella composizione dell’esecutivo che nascerà dalle
urne. L’obiettivo è di ridimensionare le intemperanze populiste di
un Yisrael Beitenu così come la capacità di condizionamento delle
componenti più religiosizzate. Netanyahu è un laico e sa bene che
la sua mission è quella di impedire che il potere di interdizione
delle minoranze più “rumorose” – come nei recenti casi legati
alla permanenza dell’esenzione dal servizio militare per una parte
delle comunità ultraortodosse, oltreché dei benefici e delle
guarentigie economiche ancora riservate ad esse – continui malgrado
i molti segni di insofferenza di una parte considerevole
dell’elettorato israeliano. Da ultimo, infine, Netanyahu nutre
senz’altro progetti per il “suo” Likud. Il fatto che negli anni
scorsi il partito sembrasse essere consegnato ad un posizionamento
nettamente a destra non poteva risultargli facilmente accettabile.
Durante il suo dicastero i rapporti interni si sono maggiormente
riequilibrati. Anche guardando all’Europa Bibi sa bene che
l’obiettivo elettorale, in una democrazia, è di conquistare il
centro. Dopo di che, in che cosa esso consista lo possono dire solo
gli attori politici più importanti. Anche e soprattutto su di ciò
si giocheranno quindi le elezioni a venire in cui i competitori
dovranno infine dire qualcosa sui problemi economici di un paese in
forte crescita nel volume di ricchezza prodotta ma con una non meno
accentuata polarizzazione nella distribuzione dei benefici da essa
derivanti. Claudio
Vercelli, http://www.moked.it/
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