giovedì 11 ottobre 2012
di DANIEL FUNARO – Ci vorrà ancora del tempo per sapere se, a
trent’anni di distanza dall’attentato alla Sinagoga di
Roma, in cui morì un bambino di due anni, Stefano Gay Taché e
furono ferite 38 persone, l’Italia saprà rendere
giustizia al suo passato. Per ora a dare un senso a questo
anniversario c’è stato unicamente il gesto di Giorgio Napolitano
che, come annunciato lo scorso 9 maggio nella giornata del ricordo
delle vittime italiane del terrorismo, ha deciso di inserire anche
Stefano in questo elenco ufficiale, risolvendo l’anomalia per cui
un bambino ebreo ucciso a due anni sotto il fuoco del terrorismo
palestinese non ne faceva inspiegabilmente parte.Bisogna però ripartire da più
lontano, dal 9 ottobre 1982, o forse da tempo prima. Erano
gli anni della guerra in Libano, della strage di Sabra e Chatila e
del sentimento antisionista che pervadeva una certa sinistra. Il
clima in Europa per le comunità ebraiche era pessimo. In tutte le
maggiori capitali europee agli ebrei era rimproverato il loro legame
con Israele. Un certo antisemitismo aveva ricominciato a circolare e
si moltiplicavano gli atti di violenza nei confronti di luoghi
ebraici e degli ebrei in generale. Come accadde a Roma,
quando poche settimane prima dell’attentato, in un corteo della
Cgil, vi fu un gesto gravissimo che apparve e quasi come un
segno premonitore. Alcuni manifestanti decisero di deporre una bara
da bambino di fronte alla lapide per i deportati sotto la Sinagoga di
Roma.L’avvertimento suonò sinistro, allora come oggi. Per i
detrattori d’Israele, gli ebrei da vittime della Shoah si
trasformarono in carnefici. Si rimproverava a chi era
sopravvissuto ai campi di sterminio che gli ebrei volessero
difendersi, che le vittime sacrificali delle follie
dell’umanità avessero deciso di vivere come ogni popolo libero
avrebbe fatto, riservandosi, se necessario, anche il diritto di
reagire. Era una nuova forma di antisemitismo che si rigenerava
nell’odio contro Israele.Fu così che l’Italia decise di vendere, ancora una
volta, al miglior offerente gli ebrei , dimenticando che
anch’essi erano cittadini italiani. Lo fece per la prima
volta quando il Parlamento, con la nobile eccezione dei
repubblicani di Spadolini, allora Primo Ministro, e dei radicali di
Pannella, meno di un mese prima dell’attentato alla Sinagoga,
ricevette con tutti gli onori Yasser Arafat, leader
dell’organizzazione terroristica palestinese dell’Olp,
allora nota per gli attentati contro gli ebrei in tutta Europa e
ancora lontanissima dall’idea di un negoziato politico con Israele.
Il tutto in un clima di festosa amicizia con quello che Presidente
del Consiglio, Bettino Craxi, per rivendicare la posizione italiana
dopo la crisi di Sigonella e giustificare la decisione di
liberare gli assassini dell’ebreo americano Leon Klinghoffer
durante il sequestro dell’Achille Lauro, avrebbe tre anni
dopo paragonato niente meno che a Giuseppe Mazzini. Paragone
decisamente inappropriato, come ha ricordato ieri il rabbino capo di
Roma Riccardo Di Segni nel suo discorso
alla cerimonia di commemorazione dell’attentato, per il
semplice fatto che i rivoluzionari come Mazzini non sparavano ai
bambini all’uscita dai luoghi di culto, né agli anziani sulle
sedie a rotelle.L’Italia vendette gli ebrei ai terroristi con il
cosiddetto Lodo Moro, l’accordo svelato
dall’ex Presidente della Repubblica Cossiga, in base
al quale era stato concesso ai terroristi palestinesi di agire
liberamente nel suolo nazionale, a fronte dell’impegno di non
colpire obiettivi italiani. L’immunità garantita da parte
palestinese non riguardava però gli ebrei, quasi che questi non
fossero italiani, come quelli colpiti a Roma in quel 9 ottobre di
trent’anni fa. L’Italia vendette gli ebrei in modo forse
più consapevole e calcolato di quanto si possa pensare. Il
giorno dell’attentato, a differenza che in quelli precedenti, non
c’era la solita camionetta della polizia a difendere gli ebrei
romani. Un’ambigua e inquietante casualità che lascia ombre su una
storia da sempre poco chiara.Per questa ragione oggi c’è una pagina di storia
dell’Italia che non può essere chiusa. Ci sono ancora troppi dubbi e troppe
responsabilità non accertate. La realtà è che avremmo bisogno di
uno scatto d’orgoglio collettivo. Bisogna rendersi conto che quella
di Stefano è la storia di un bambino italiano ammazzato, per cui
l’Italia non si è neppure data pena di inseguire ed estradare
l’unico degli attentatori a cui la giustizia ha dato un nome, Osama
Abdel Al Zomar, che vive liberamente in Libia dalla metà degli anni
’80.Dobbiamo pretendere che il velo d’ipocrisia che ha oscurato la
nostra politica internazionale per lungo tempo sia finalmente
strappato. Immaginare di rispondere come uno Stato democratico
sarebbe una grande vittoria per il paese. Togliere il segreto
di Stato su vicende che precedono e accompagnano anche l’attentato
alla Sinagoga consentirebbe all’Italia di consegnare,
quantomeno al tribunale della storia, i responsabili di quella
strage. Un po’ poco forse per chi perse un figlio o un fratello, ma
in realtà una grande vittoria per la coscienza di un paese che
intende essere civile.di DANIEL FUNARO, http://www.libertiamo.it/
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