sabato 6 aprile 2013
L’idea
troppo spesso propagandata per cui in guerra, e in genere quando si
veste una divisa, l’eroismo sia sinonimo di azione brillante svolta per
il bene, mi è sempre sembrata una grave stortura. Con queste premesse,
demolire la figura di Gilad Shalit sulla base della sua testimonianza e
del suo comportamento non efficiente sul piano militare in occasione
della sua cattura (com’è stato fatto da Ben Caspit sul Jerusalem Post) mi sembra un
esercizio giornalistico ingeneroso, con cui si sminuiscono sia la
vicenda tragica di un ragazzino rimasto prigioniero per cinque anni,
sia la morte altrettanto tragica dei suoi compagni di tank. Chi veste
la divisa di Zahal entra in un mondo a parte, che lo trasforma come
essere umano e lo conduce a compiere azioni quasi sempre “in
automatico”. Per questi ragazzi e queste ragazze che diventano
prestissimo adulti penso ci voglia prima di tutto rispetto, e penso che
nessuno possa giudicare del maggiore o minore eroismo nel loro
comportamento in situazioni estreme (cosa che lo stesso Caspit ammette,
da ex comandante di tank). Traggo da un bel racconto autobiografico di Gabriele Levy alcuni brevissimi
esempi di quel che accade a questi ragazzi quando entrano in servizio.
Ne esce rafforzata una sensazione forte che spinge a lavorare con
serietà a una prospettiva di pace stabile nella regione. “Ad un certo
punto, mentre ancora sono in abiti civili, una bellissima soldatessa mi
chiede, sorridendo: ‘Chi vuoi che sia avvisato per primo nel caso tu
dovessi morire?’.” “I nostri comandanti cominciano a gridare ordini,
per lo più incompresi, dato che siamo quasi tutti nuovi immigrati.
Mentre cerchiamo di abituarci alle grezze e rozze divise che ci
accompagneranno per questi due lunghi anni, già le orecchie sentono lo
stridore delle urla del sergente.” “Sul bordo superiore dello scarpone
c’è una fessura nel cuoio. Lì bisogna inserire la propria piastrina di
riconoscimento: una targhetta di metallo con inciso in altorilievo il
nome ed il numero di matricola del soldato. Servirà nel caso si
trovasse solo il piede, per riconoscere il morto a cui esso
appartiene.” “Mercoledì notte ci siamo fatti una marcia di sette
chilometri con le barelle sulle spalle, sulle quali c’era il ‘ferito’:
tutto il percorso era su un terreno sabbioso. Poi ben quattro ore di
sonno, seguite da esercitazioni a fuoco vivo tutto il giorno, e quindi
partenza verso sera, di corsa, verso la Base 80. Venti chilometri
attraversando una cittadina, girando attorno ad un lago e poi il resto
in mezzo agli agrumeti. Sempre di corsa.” “Piango molto e dopo il
pianto mi sento meglio, più leggero.”“Per poter fare di un uomo un soldato, è necessario prima distruggerlo
psicologicamente, per poi inculcargli quelle quattro fondamentali
regole di comportamento in battaglia: buttati a terra, riparati, punta
e rispondi al fuoco. Per distruggerci psicologicamente usano una
tecnica molto semplice: ci tolgono il sonno. Prima o poi si crolla. E
sulle ceneri di quel disastro si costruisce il soldato-robot. Così è
stato per tutti.” “Alcuni minuti dopo il sorgere del sole, ho sentito
degli spari e visto schegge di proiettili che hanno colpito le pietre
attorno a me. Come da copione, ben imparato al corso addestramento
reclute, mi sono ritrovato per terra prima ancora di capire cosa stava
succedendo, ho cercato un riparo dietro cui nascondermi e iniziato a
rispondere al fuoco. In pochi istanti ho capito a cosa erano serviti i
lunghi mesi di addestramento. Eravamo diventati dei soldati-robot ed
agivamo tutti in maniera automatica e sincronizzata. Lo scopo primario
era salvare la propria vita e possibilmente anche quella dei propri
compagni. Nessuno era lì per fare l’eroe.”http://www.moked.it
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