Fiona Diwan, 04/04/2013 http://www.mosaico-cem.it
«Amo il design ma non sento il bisogno di possedere degli oggetti.
Vivo di poco, come un asceta. Quando vedo cose che mi piacciono
preferisco portare a casa dei feelings, delle emozioni non delle cose.
Da bambino non avevo nulla. Solo pochi giocattoli. E così ho imparato a
crearli con niente, giochi che piacevano a me. Io sono ancora come un
bambino. I miei clienti mi chiedono di fare una cosa e io ne faccio
un’altra. Non per capriccio, intendiamoci. Forse piuttosto perché mi
porto dietro le mie paure, le ansie, una dimensione emozionale e
inconscia di cui non riesco a liberarmi». Così parla Ron Gilad, 40 anni
(è nato nel 1972), nuova star del design internazionale, israeliano di
Tel Aviv, vissuto a New York e tornato stabilmente oggi in
Israele,vincitore dell’edizione 2013 del prestigioso Wall Paper Award
come designer dell’anno. Un po’ Tim Burton un po’ Bruno Munari, con una
fascinazione euclidea per la semplicità geometrica delle forme, Ron
Gilad ha un approccio giocoso e insieme emotivo al design, concettuale,
irriverente a volte surreale, con oggetti capaci di intercettare il
paradosso, il senso dell’assurdo, il gioco delle sproporzioni e un
ironico gusto dadaista.Oggetti capaci di invertire la pesantezza in leggerezza e viceversa,
la staticità in dinamismo. E’ il caso della stabilità fragile del
tavolino Panna Cotta per Molteni – in marmo e ferro- , del Wall Piercing
per Flos, -una geniale luce integrata al muro che è una vera scultura
luminosa, nonché il lavoro che ha consacrato Gilad star planetaria-,
l’armadio Cabinet per Adele C., massiccio e gigantesco che
poggia su piedi a forma di esili seggioline Thonet di misura
lillipuziana. Razionale e favolistico, astratto e ironico, citazionista
ma mai pedante, Ron Gilad crea pezzi che sembrano unici, che amoreggiano
con l’arte, che ci parlano di recupero della memoria e di oggetti del
passato; come ad esempio accade con la Miniteca di Flos, il
vecchio abat jour cianfrusaglia che persino Guido Gozzano avrebbe
gettato tra le ortiche di Nonna Speranza: ecco, Ron Gilad non solo li
reinventa come lampade ma riesce a persuaderci della loro dignità di
opera d’arte mettendoli in una teca. Molto più di semplici pezzi di
design. Oggetti ibridi, pieni di humour e eleganza. Rigore e
immaginazione, un teatro dell’assurdo dove gli oggetti non sono mai
quello che sembrano, i pezzi di Gilad sono oggi nella collezione
permanente del Metropolitan, del Museo di Arte e Design di New York e
del Museo d’Arte Moderna di Tel Aviv che, nel prossimo luglio. gli
dedicherà una mostra personale.
Da Molteni a Flos, da Dilmos a De Castelli… I suoi rapporti con il design italiano sono ormai strettissimi.Mi trovo molto bene con gli italiani, meno nevrotici e
anticonformisti di noi di Tel Aviv: siete esattamente una via di mezzo
tra gli americani e gli israeliani, caldi, ospitali e accoglienti come
in Israele ma più corretti che da noi. E non siete rigidi e pieni di
regole, come gli americani, così politically correct.Il suo lavoro è caratterizzato da una forte dimensione
linguistica, razionale e inconscia al tempo stesso. Lei crea armonie
dove abitualmente troviamo solo dissonanze…Credo che la cosa dipenda dal mio approccio. Io non faccio differenza
tra me stesso e il mio lavoro, non distinguo tra ciò che sono e ciò che
faccio. Paure, ansietà, disordine interiore: tutto finisce in ciò che
faccio, io non posso ignorarli quando disegno, anzi. Sì, certo, quando
creo una lampada so che è un oggetto preciso, definito, apparentemente
lontano da emozioni o paure -al massimo può illuminare le mie ansie -ride, ndr-.
Ansietà e fobie che invece sono presenti nel processo che sta a monte,
quello ideativo: presiedono al mio bisogno di sentirmi sicuro, protetto.
Sono d’accordo con lei quando mi accosta a Tim Burton: come lui, anche
io porto dentro alle mie creazioni l’intero mondo di inquietudini che
abitano il mio spazio interiore. I film del geniale Tim Burton
riflettono la sua grande paura della gente, delle strade, della massa. I
miei oggetti rispecchiano le mie nevrosi anche se non lo danno a
vedere. C’è un pacchetto emozionale che mi porto sempre dietro e che
sostanzia il mio lavoro. Ecco perché tra me e le mie creazioni non c’è
scission ma assoluta fusionalità. Gli oggetti che creo sono pezzi di me,
parte di me, semi del mio spirito, qualcosa che germina da quell’humus
disagiato e ansioso.Il suo sito si chiama Designfenzider. Perché questo nome?Io non ho un sito web, i due che portano il mio nome (rongilad.com;
rongiladdesignfenzider), non sono miei ma appartengono al mio ex socio
americano, con cui ho rotto tutte le relazioni dal 2007. Lui si è preso
tutto ciò che era mio. La proprietà di quel brand è rimasta a lui, anche
se c’è il mio nome e c’è la mia storia. Seifenzider è il vecchio nome
della mia famiglia: in Germania, gli ebrei assumevano il nome della
professione che facevano e in tedesco Seifenzider, significa
fabbricante di saponi. I miei nonni arrivavano da Russia e Germania e
quando approdarono in Israele chiesero di cambiare il nome, volevano che
suonasse meno europeo (e quindi meno legato al vissuto di persecuzioni
da cui scappavano), e scelsero di chiamarsi Gilad, un nome più
israeliano. Così, per simpatia verso il mio passato, per una forma di
recupero della memoria familiare, scelsi di chiamare il sito in quel
modo. Ma adesso non è più mio, lo scriva.Il tema della memoria è molto presente nel suo lavoro. In ogni
oggetto lei inserisce una citazione dal passato, un elemento iconico che
appartiene alla tradizione del design. Senza contare che lei ama la
citazione, un tipico processo postmoderno… ed ebraico.Io sono israeliano. Il verbo lizkor, ricordare, in ebraico, è
una delle parole chiave della nostra tradizione. Ci è vietato
dimenticare, perché solo con la memoria riusciamo a sapere chi siamo e
questo è un pilastro della sensibilità ebraica. Le risponderò con una
citazione: Isaac Newton disse una volta che per guardare lontano
dobbiamo salire sulle spalle dei giganti e che non si può guardare
avanti senza imparare da coloro che sono esistiti prima di noi. Non
esiste l’innovazione pura; esiste l’elaborazione, la mutazione di
qualcosa che è esistito prima di noi. Ciò che penso e che progetto
richiama sempre ciò che è stato fatto e pensato prima di me.Io non invento nulla, in un certo senso tutto esiste già. Il mio
processo creativo consiste nel far emergere aspetti nascosti,
connessioni nuove tra le cose e le forme, rielaborarle e riconnetterle
l’una con l’altra, creando poi una terza cosa che è frutto di una mia
intuizione.Lei è cresciuto in un piccolo appartamento Bauhaus a Tel Aviv. In che modo il Bauhaus ha influenzato il suo gusto e visione?In nessun modo. È stata piuttosto l’atmosfera di casa, quei pochi
pezzi che avevamo che mi hanno influenzato. Sono il più piccolo di
quattro fratelli, -tre maschi e una femmina, una famiglia piuttosto
religiosa-. Avevo pochissimi giocattoli e ho imparato a crearli dal
nulla. Questo ha influenzato la mia percezione. Ad esempio, che due
valigie messe sotto un asse possano diventare un tavolo.È stata quindi l’Accademia di Bezalel ha darle un imprinting determinante?Sì, assolutamente. Io penso che la chiave della mia formazione sia
stato il mix tra le griglie rigide datemi dall’Accademia e la totale
libertà sperimentata all’interno di quelle griglie.La sua mostra al Museo di Tel Aviv a luglio 2013 è concomitante a
quella di un altra star israeliana, Ron Arad, al Museo del Design di
Holon…Una curiosa simultaneità. Si vede che i creativi israeliani stanno diventando di moda (ride, ndr).
Lei ha sempre coltivato un approccio ludico, ama giocare con i simboli del design. Quali sta rivisitando oggi, per la mostra di luglio?L’icona della casa, la tipica casetta col tetto rosso che disegnano i
bambini, quella col caminetto e il comignolo in cima. Un lavoro che
sarà al Museo di Arte Moderna Tel Aviv. Come si presenta? In genere, la
prima cosa che faccio è pensare al feeling che mi suscita una cosa. È home oppure house? È casa o focolare? Se home è il feeling, la percezione, se è sicurezza, calore, accoglimento, allora house
è la costruzione, la forma della casa, il suo disegno. Mi piace giocare
con questi simboli e con questa idea. Ragione e sentimento, appunto.Lei spesso usa la parola insoddisfazione per definire i suoi
d’animo, dissatisfaction è un termine che ricorre molte volte. Perchè?Non si tratta di un’esangue o svenevole posa intellettual-mondana-
esistenziale. In ebraico tutti i nomi hanno un significato. Il mio nome,
Ron, significa felicità. Eppure, io non ricordo un solo minuto della
mia vita interamente felice o soddisfatto. Sono fatto così: se ottengo
una cosa, so per certo che non ne avrò un’altra. È la mia natura?, è la
condizione ebraica? Non so. Essere insoddisfatto è cercare di essere
felice senza mai riuscirci…Che cosa pensa dell’esito delle elezioni in Israele? È preoccupato per la situazione?Finalmente facce diverse, sangue nuovo! Fin dall’inizio era chiaro
che nulla di estremo sarebbe emerso da queste elezioni. Yair Lapid ha
vinto perché ha un’immagine molto politically correct, non ha
estremizzato nessuna delle proprie posizioni e soddisfava le aspettative
di tutti coloro che volevano scappare dal caos di Bibi e Libermann. Il
padre di Yair Lapid era un uomo -e un politico-, molto brillante,
onesto, integerrimo. Sono contento che Lapid abbia vinto, che ci sia
ricambio alla Knesset. Anche Naftali Bennet è una nuova generazione, tra
i religiosi. Almeno si tenta un rinnovamento e non resta tutto
congelato come è accaduto finora.
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