“Il colombo viaggiatore della Shoà”
“Qui, oggi, vorrei parlare di cose sulle quali ho scritto molto, che vivo incessantemente in veste di ebreo, di israeliano e di scrittore. Cose che toccano la ferita aperta tra gli ebrei e gli altri popoli del mondo, soprattutto quelli europei.
Oggi ricorre la Giornata internazionale della Memoria. Sei milioni di ebrei morirono sul suolo d’Europa in un eccidio senza precedenti nella storia dell’umanità e dopo il quale l’umanità non fu più la stessa.
Ecco alcuni interrogativi che questa giornata risveglia: esiste oggi un dibattito sulla Shoà in quanto avvenimento dal significato universale e non esclusivamente “ebraico”? Tale dibattito è significativo, e autentico, oppure, con l’andar degli anni, si è trasformato in una sorta di obbligo formale, di tributo che il senso di colpa europeo si sente in dovere di pagare una volta all’anno agli ebrei e ai patimenti da loro subiti durante la Shoà? E noi, rappresentanti di questa generazione, di tutti i popoli e le religioni, comprendiamo l’incisività e l’attualità degli interrogativi che la Shoà ci prospetta e la rilevanza che hanno ancora oggi, soprattutto oggi?
Queste domande concernono, peraltro, anche il nostro rapporto con gli stranieri, i diversi, i deboli di ogni nazione del globo; concernono l’indifferenza che il mondo mostra, di volta in volta, verso episodi di massacro in Ruanda, in Congo, in Kosovo, in Cecenia, nel Darfur; concernono la malvagità e la crudeltà del genere umano che nel periodo della Shoà si profilarono come concreta possibilità di comportamento. In che modo trovano espressione nella nostra vita e quale influenza hanno sulla conformazione e sulla condotta del genere umano?
In altre parole: la memoria che serbiamo della Shoà può essere veramente una sorta di segnale d’avvertimento morale? E siamo noi in grado di trasformare i suoi insegnamenti in parte integrante della nostra vita?
A causa del poco tempo a disposizione vorrei parlare solo di un determinato aspetto della memoria della Shoà, e di come, a mio parere, sia possibile rivitalizzare il dibattito intorno ad essa e renderlo più rilevante nella vita di ciascuno di noi.
Quanto più ci allontaniamo dall’epoca degli avvenimenti, quanto più il numero dei sopravvissuti diminuisce, tanto più cresce il timore che il dibattito sulla Shoà rimanga circoscritto a un ambito accademico e astratto e perda gradualmente il legame con una dimensione umana, personale, privata.
Apparentemente questo è un processo naturale: coloro che ricordano si allontanano dalla sofferenza personale delle vittime a favore di una prospettiva storica più ampia, generale, teorica. In un certo senso è più facile, e persino “comodo”, occuparsi di un evento storico traumatico con gli strumenti del pensiero astratto e del dibattito concettuale piuttosto che esporsi, di volta in volta, alle atrocità, all’insopportabile sofferenza del singolo, dell’individuo, dell’uomo, della donna e del bambino vittime di quel trauma.
Noi ebrei non abbiamo altra scelta che toccare direttamente con mano la Shoà in quasi ogni circostanza o congiuntura significativa della nostra vita.La Shoà ha elaborato in noi schemi di pensiero e di condotta ravvisabili in quasi ogni ambito della nostra esistenza: dal modo in cui alleviamo ed educhiamo i figli a quello in cui lo stato di Israele affronta i problemi di sicurezza e di politica estera. Ma la Shoà è più che altro presente nel modo occulto, tragico, con cui gli israeliani e gli ebrei percepiscono la loro esistenza in quanto popolo, la loro diversità, l’agghiacciante peculiarità del loro destino, la loro estraneità fra gli altri popoli, l’esperienza della loro esistenza che appare immancabilmente fragile, incerta, sempre in bilico, e sulla quale incombe l’ombra di una qualche minaccia.
Mentre gli altri popoli possono, con relativa facilità, evitare di riflettere sulle conseguenze della Shoà – e dunque sfuggire a un dibattito profondo che le concerne – noi, in Israele, siamo condannati a dibatterle ripetutamente, a cadere talvolta nella trappola dell’angoscia esistenziale che la Shoà ha scavato in noi, a definire gli aspetti significativi della nostra vita nei termini categorici, estremi, che la Shoà ha lasciato impresso in noi. In un certo senso si può dire che il popolo ebraico, e di fatto quasi ogni ebreo, sia un colombo viaggiatore della Shoà, che lo voglia o no.
Ma affinché questa disquisizione non rimanga a un livello puramente teorico, non appaia come una sorta di dissertazione filosofica distante dagli esseri umani, vorrei raccontarvi una storia di quel periodo. Non è una storia particolarmente traumatica. Ne ho sentite di più brutte e terribili. Eppure racchiude una tale sofferenza e un tale dolore che da anni non mi dà pace.
Si tratta della vicenda di un giornalista ebreo polacco di nome Leib Rochman. Negli anni trenta del secolo scorso Rochman scriveva per un giornale in yiddish pubblicato a Varsavia. Dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale fece ritorno alla cittadina nella quale era nato, Minsk Mazowiecki, situata a est di Varsavia, dove si attivò come “assistente sociale” tra gli ebrei del ghetto, facendo meraviglie nel procacciare cibo agli affamati. Nel 1942 sposò Ester, anch’ella nativa del luogo, e tre mesi dopo i nazisti sterminarono la comunità ebraica. Dei seimila ebrei della cittadina ne rimasero meno di venti.
Ciotka si mise in viaggio ma strada facendo bevve un po’, divenne allegra, passò accanto a una fiera, salì su una giostra, si divertì e quando finì di spendere tutto il denaro che aveva con sé tornò a casa senza Haim.
Quella notte i tedeschi giustiziarono tutti i prigionieri del campo e anche Haim morì.
Quando Leib ed Ester vennero a sapere che Haim non era più in vita decisero di salvare un altro ebreo che, per quanto non fosse loro amico stretto, possedeva una vasta cultura ebraica e parlava la lingua della Bibbia. Poiché credevano che non fossero quasi rimasti ebrei al mondo, ritennero indispensabile tentare di salvare chi potesse perpetuare lo spirito e la tradizione ebraica.
A volte penso: tre ebrei vivevano dietro una parete, ignari di ciò che avveniva nel mondo, eppure decisero di salvare qualcuno in grado di tramandare l’ebraismo. Questa fu la loro considerazione a quell’epoca.
Così fecero arrivare Efraim e dopo di lui un altro ebreo, più anziano di tutti loro. Ora erano in cinque. La distanza tra le pareti era di pochi centimetri. Di notte uscivano strisciando dall’intercapedine e dormivano sul pavimento del salotto di Ciotka. La mattina, prima che il sole si levasse, rientravano strisciando attraverso un pertugio nascosto dietro a un letto, si infilavano tra le pareti e rimanevano lì, in piedi. Cinque persone, schiena contro schiena, faccia contro faccia. A causa della mancanza di spazio non potevano girarsi, né muoversi. Non potevano vedere nulla: tra le pareti regnava l’oscurità. Restavano in piedi fino al calare della notte. (….)
Rimasero nascosti fino alla fine della guerra, quando poterono uscire. Leib Rochman era molto malato e debole. I cinque abbandonarono il nascondiglio e si misero in viaggio, senza sapere per dove. Cinque ebrei pressoché nudi. Gli abiti che indossavano si erano logorati in quei due anni. Attraversarono i villaggi intorno a Lublin, bussarono a porte, supplicarono per un tozzo di pane, per un po’ d’acqua. Nessuno aprì, nessuno diede loro né pane né acqua. Ovunque andassero la gente li indicava e diceva stupita, in tono di scherno: ma come, sono rimasti così tanti ebrei? (…)
Leib ed Ester Rochman ebbero molte altre vicissitudini, attraversarono numerose nazioni e alla fine giunsero nella terra di Israele. Si stabilirono a Gerusalemme ed ebbero un figlio e una figlia. Quest’ultima, la poetessa Rivka Miriam Rochman, è una mia cara e buona amica ed è da lei che ho appreso questa storia.
Leib Rochman fu giornalista dell’emittente radio israeliana “Kol Israel” ma per gran parte della sua vita si dedicò alla scrittura. Pubblicò due romanzi e una raccolta di racconti che ritengo esempi meravigliosi di letteratura innovativa, profonda, che discende negli abissi dell’animo umano. Questa è la storia sua e di sua moglie Ester. Ci sono altre milioni di storie come questa. Ogni persona morta, o sopravvissuta, è una vicenda a sé e tutte queste storie, in apparenza, si mantengono su un piano totalmente diverso da quello su cui sono dibattute oggi, in apparenza, si mantengono su un piano totalmente diverso da quello su cui sono dibattute oggi le grandi “questioni” relative alla Shoà, sempre che siano dibattute. Tali questioni vertono soprattutto sulla negazione della Shoà, sull’incremento del numero dei neo nazisti in diverse nazioni e sul rafforzamento dell’antisemitismo nel mondo. Negli ultimi anni la discussione circa il diritto dei tedeschi di considerarsi vittime di quella guerra al pari di altri popoli, o addirittura di creare una simmetria –errata e inammissibile a mio parere – tra la loro sofferenza e quella degli ebrei durante la Shoà, si fa sempre più accesa.
Le vicende personali di Leib ed Ester Rochman, così come quelle di altri milioni di persone, si mantengono, come ho detto, su un piano diverso, ma senza di esse un dibattito sulla Shoà non sarebbe completo e sarebbe impossibile creare un legame emotivo tra le generazioni future e ciò che avvenne allora. Dirò di più: senza quelle storie personali il dibattito sulla Shoà potrebbe talvolta apparire un tentativo inconsapevole di difendersi dall’orrore palese. E, spingendoci oltre, si potrebbe ipotizzare che senza di esse il dibattito generico, di principio, si spegnerebbe lentamente.
Proprio le vicende individuali, private, sono il “luogo” più universale, la dimensione entro la quale è possibile creare il senso di identificazione umana e morale con le vittime che permette a chiunque di porsi ardui interrogativi: come mi sarei comportato io se fossi vissuto a quell’epoca, in quella realtà? Come mi sarei comportato se fossi stato una delle vittime, o un connazionale degli aguzzini? Ho l’impressione che fino a che non risponderemo a queste domande – ognuno per conto proprio – fino a che non ci sottoporremo a questo auto interrogatorio, non potremo dire a noi stessi di aver affrontato pienamente ciò che avvenne laggiù. E se non lo faremo, dimenticheremo.
Più si assottiglia il numero dei sopravvissuti – e malgrado il lavoro di documentazione portato avanti da “Yad vaShem”, il museo israeliano dedicato alla memoria delle vittime della Shoà, e, nell’ultimo decennio, dall’archivio Spielberg – più cresce l’importanza dell’arte quale possibile mezzo per affrontare questi interrogativi. La letteratura, la poesia, il teatro, la musica, il cinema, la pittura e la scrittura sono i “luoghi” in cui l’individuo moderno può affrontare la Shoà e sperimentare le sensazioni e la particolare esperienza umana che la ricerca e il dibattito accademici solitamente non sono in grado di far rivivere.
Stalin disse una volta che la morte di un uomo è una tragedia, quella di milioni è statistica. Grazie all’arte noi siamo in grado di redimere la tragedia dalla “statistica”, di riscattarla da una visione astratta, accademica, di studio. L’arte è lo strumento più accessibile e comprensibile con il quale gran parte di noi può oggi venire a contatto, direttamente e lucidamente, con la memoria della Shoà e con gli insegnamenti che da essa derivano.
E’ una grossa responsabilità per gli artisti: presentare le cose in modo immediato, non manipolativo, sentimentale, volgare o esaltato. E’ molto difficile penetrare in quelle tenebre, nel luogo dove tutte le bussole impazzirono, e mostrare chiaramente la follia di ciò che avvenne.
Mediante l’arte possiamo ravvivare il linguaggio col quale descrivere ciò che avvenne, non sedimentarci in cliché di parole e di sentimenti intesi, in verità, a proteggerci da quell’insopportabile sofferenza. Ancora e ancora, in un’infinità di varianti, dobbiamo raccontare a noi stessi e agli altri quella storia terribile, con tutte le sue atrocità ma anche con le sue scintille di luce e di pietà e di compassione e di coraggio. Raccontarne i substrati con gli strumenti della coscienza, dell’intelletto, del sentimento. Raccontarla basandoci sulla conoscenza dei fatti storici, facendo riecheggiare gli interrogativi morali, sociali e filosofici che essa risveglia, ma mantenendo sempre un legame con le vicende personali degli esseri umani che la vissero; ponendo noi stessi laggiù al posto loro, con loro.
Ancora e ancora dobbiamo tornare laggiù, identificarci totalmente con la donna, con l’uomo, con il bambino costretti a spogliarsi gli uni davanti agli altri un attimo prima di essere giustiziati e gettati in una fossa. Tornare a essere con i due bambini ebrei presi prigionieri durante un rastrellamento, mentre giocavano a pallone con i oro amici cristiani. E quando il treno che li trasportava via passò accanto al campo di calcio videro, attraverso le fessure del vagone, i loro compagni che continuavano a giocare. Tornare a essere con i residenti del ghetto di Lodz ai quali i nazisti ordinarono di scegliere ventiquattromila tra vecchi e bambini che venissero inviati allo sterminio ma ai quali promisero che se avessero scelto piccoli sotto i dieci anni, altri quattromila bambini avrebbero potuto essere salvati. Tornare a essere con le due donne e i tre uomini che per giorni e settimane e mesi e anni rimasero in piedi, al buio, tra due pareti.
Il mio modo di tornare a raccontare questa storia è stato scrivendo “Vedi alla voce: amore”. Scrissi quel libro perché ero arrivato a un momento della mia vita in cui sentivo di non poterne più fare a meno. Di non poter più vivere e comprendere appieno la mia vita di essere umano, di padre, di ebreo, di israeliano e di scrittore, fintanto che non avessi sperimentato – grazie alla scrittura – l’esistenza che non avevo avuto laggiù, all’epoca della Shoà. Dovevo capire se, e in che modo, sarei stato in grado di mantenere una parvenza umana qualora mi fossi trovato laggiù, come una delle vittime, o, Dio non voglia, uno dei carnefici. Volevo sapere cosa un uomo deve cancellare – o rimuovere – dentro di sé per poter essere parte di un meccanismo omicida. In altre parole cosa avrei dovuto sopprimere di me stesso per poter sopprimere altri, o anche “soltanto” accettare quella situazione in silenzio.
E’ evidente che tali interrogativi sono pertinenti non solo al periodo della Shoà ma anche a situazioni meno estreme. La vita moderna e la società umana costituitasi intorno a noi – aggressiva, anonima, aliena – ci sfidano a porci questi interrogativi in un’infinità di contesti e di circostanze.
Ognuno di noi può rispondervi a modo proprio. Io lo faccio scrivendo. Immagino che questo sia il motivo per il quale avete deciso di concedermi oggi questa laurea ad honorem. Prometto che i miei libri continueranno a porre questi interrogativi, e cercheranno di darvi risposta. Ancora e ancora e ancora.
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