lunedì 9 giugno 2008

Qumran

Razzisti tanti ed eccellenti - Eppure Mussolini era stato avvertito

«Signor direttore, Bondi come Bottai? Non lo trovo un complimento» ha subito scritto con intelligenza storica Giorgio Israel a Giuliano Ferrara, dopo aver letto sul Foglio un elogio contropelo alle aperture del ministro dei Beni culturali, Sandro Bondi, nei confronti della cultura di sinistra. Giuseppe Bottai, ministro delle Corporazioni, infatti, seppur mallevadore delle migliori menti della fronda antifascista poi passate all’antifascismo, volle schierare sul fronte dell’antisemitismo militante le migliori firme della sua celebre rivista Primato, facendone uno sofisticato strumento culturale per l’attuazione di quelle leggi razziali che settant’anni fa, nell’estate 1938, segnarono la svolta totalitaria del regime fascista. Al principio degli anni Sessanta, con la sua Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, Renzo De Felice per primo individuò nella discriminazione legale degli ebrei imposta da Benito Mussolini un campanello d’allarme rimasto inascoltato. Infatti risulta ancora difficile, non solo in sede politica ma anche storica, spiegare perché la vulgata antisemita del fascismo abbia riscosso tanto facile consenso trasversale in tutto il Paese. Una macchia che la transizione dal fascismo all’antifascismo non è riuscita a cancellare. Si è provato a nasconderla, come ha raccontato con esempi ancora dolenti Pierluigi Battista in Cancellare le tracce (Rizzoli 2007). Oppure si è tentato di giustificarla politicamente, come dimostra Mirella Serri nell’esaustivo I Redenti (Longanesi 2005).
La cultura egemone del dopoguerra, cattolica o comunista, piuttosto che azionista e radicale, non riuscì, perché non seppe né volle, a fare i conti con la «vergogna della razza». Ecco così che la nuova ricerca storica ha fatto riemergere, nel corso degli ultimi 10 anni, insospettabili condiscendenze, frutto di distrazioni giovanili o ingenue infatuazioni politiche. Si va dalla collaborazione di Alberto Moravia a Je suis partout, giornale collaborazionista dello scrittore antisemita francese Robert Brasillach, all’inciso scappato dalla penna dell’economista democratico Paolo Sylos Labini, allora giovane collaboratore di Primato, che per condannare gli «speculatori integrali» della guerra li bolla con l’accusa di «ebrei di elezione». O peggio: su Primato, in un articolo anonimo autorevolmente attribuito al grande archeologo comunista Ranuccio Bianchi Bandinelli, citando Adolf Hitler e Alfred Rosenberg si discute sul «principio razziale dell’Ariano, solo creatore o rigeneratore della vita e dell’arte» e della «morale insita nella razza e nel regime politico che la incarna». Con lo stesso intento il filosofo comunista Galvano Della Volpe, quando era fascista, vedeva la crisi della filosofia occidentale nella sopravvalutazione dell’Illuminismo da parte della cultura «israelita». E lo storico cattolico Gabriele De Rosa ha dichiarato «l’avevo fatta grossa» quando gli è stato rinfacciato il libercolo «goffo e scriteriato» del 1939 nel quale irrideva al «focolare ebraico» nella Palestina dove era morto Gesù, in piena campagna antisemita. La carriera di Nicola Pende, la cui firma servì a nobilitare il primo Manifesto della razza pubblicato sul Giornale d’Italia il 15 luglio 1938, racconta come anche il potere cattolico seppe proteggere i suoi «redenti». Alcide De Gasperi stesso lo difese contro Palmiro Togliatti, nel 1946. Da allora la sua luminosa carriera non sarà mai offuscata da quella firma. E ancora oggi a Pende sono dedicati due premi scientifici e il suo paese natale, in provincia di Bari, ne pretende la riabilitazione storica.
E uno sugli "avvertimenti" di figure vicine al regime fascista sulla pericolosità dell'alleanza con Hitler:
Con quasi un decennio in anticipo sul varo delle leggi razziali, avvenuto settant’anni fa, Margherita Sarfatti, consigliera e amante del duce, guardava con orrore alla prospettiva di un matrimonio ideologico tra fascismo e nazionalsocialismo poi consacrato nell’Asse. L’intellettuale ebrea vide nella scellerata prospettiva del patto italo-tedesco un pericolo per la sopravvivenza stessa del regime mussoliniano. Una serie di carte inedite del periodo 1929-30, provenienti dall’archivio privato del barone tedesco Werner von der Schulenburg, e che Panorama rivela in anteprima, dimostra di cosa fu capace Adolf Hitler per attrarre nella sua orbita il duce già molto prima dell’anno che segnò la svolta del regime: il 15 luglio 1938 fu pubblicato il Manifesto degli scienziati razzisti, cui fece seguito, a partire da settembre, l’approvazione di una serie di provvedimenti antisemiti. Schulenburg (1881-1958), un letterato amico del duce e intimo collaboratore di Sarfatti, fu lo strumento tutt’altro che docile al quale Hitler ricorse per accreditare presso l’Italia fascista un’immagine benevola e rassicurante del movimento delle camicie brune. Il dossier ci presenta, con risvolti inquietanti prima sconosciuti, la potenza di fuoco dell’apparato propagandistico del Partito nazista, che tra il 1929 e il ’30 si stava già profilando come forza dominante del panorama politico tedesco. L’operazione di «pubbliche relazioni» svolta da Hitler e dalla sua Nsdap fu così audace da determinare gli esiti di una campagna di stampa favorevole al movimento delle croci uncinate, correggendo taluni giudizi negativi sul nazismo che la rivista culturale ufficiale del regime diretta da Sarfatti, Gerarchia, aveva espresso. Ad accendere le polveri era stato un articolo, apparso sul numero di settembre 1929 a firma del germanista Alberto Spaini. Nella sua analisi Spaini riservò un giudizio sprezzante ai nazionalsocialisti, un partito dotato di una buona organizzazione ma «privo di capi». La stilettata colpì direttamente Hitler che a fine novembre mandò un suo emissario presso Sarfatti: il principe Friedrich Christian di Schaumburg-Lippe. Per comporre la vertenza venne concordato un articolo riparatore da affidarsi a un tedesco. Il nome cadde su Schulenburg, il quale, incaricato da Margherita Sarfatti, ricevette la documentazione dalla segreteria di Hitler, a Monaco. Ma, dal carteggio che oggi viene alla luce, si comprende come l’aristocratico fosse indisponibile a scrivere un panegirico del nazionalsocialismo, sotto dettatura di Hitler. Uno scambio di lettere tra Schulenburg e il numero due del Führer, il capo della segreteria politica Rudolf Hess, risulta illuminante a tal proposito. Il delfino di Hitler, il 2 dicembre 1929, comunica all’autore del pezzo che «ha piena libertà di soprassedere sulla questione ebraica». Poi gli rappresenta a chiare lettere il motivo politico centrale che deve ispirare il suo ragionamento, vale a dire l’avvenuto ribaltamento dei rapporti di forza, a destra, tra i tedesco-nazionali di Alfred Hugenberg, ormai in declino, e i nazisti, in rapida ascesa. L’opera di persuasione esercitata da Hess su Schulenburg raggiunse solo in parte l’obiettivo.
Il collaboratore di Gerarchia, dopo aver inizialmente manifestato il desiderio di scrivere un articolo firmato, nel quale si accennasse cautamente alla questione ebraica, fu ridotto a più miti consigli, forse su pressione dello stesso entourage di Hitler. In tal modo Schulenburg si vide costretto ad ammorbidire i toni del suo intervento, ritirando la propria firma. La presentazione del nazionalsocialismo apparve infatti nel numero di dicembre del 1929 della rivista, sotto lo pseudonimo di Geert von Schwochau. Schulenburg tratteggiò in maniera neutrale la Nsdap hitleriana, però non omise di evidenziare che la demagogia del Führer gli alienava molti consensi. Tutto ciò si traduceva in un velato accenno alla questione ebraica, con l’auspicio che, in futuro, Hitler cominciasse a comportarsi in modo più urbano imparando «dai suoi avversari a valersi di una forma di propaganda più adatta alla mentalità della borghesia». Il futuro cancelliere del Reich dissimulò la sua probabile irritazione per quel passaggio, lusingato dal fatto di essere stato trattato con riguardo dalla rivista ufficiale mussoliniana. Non a caso Hitler, il 2 gennaio 1930, mandò una lettera di ringraziamento al barone Schulenburg, accompagnata da una tessera in bianco di comandante delle Ss, firmata da Heinrich Himmler. Il nobile tedesco non si avvalse mai di quel documento anche perché, pochi giorni dopo l’uscita dell’articolo su Gerarchia, Sarfatti stessa, in una lettera anch’essa inedita, gli offrì di passare all’offensiva. La missiva sarfattiana, datata il giorno di Natale del 1929, recita: «Questo demagogismo semplicista di Hitler e la Judenhetzerei (caccia agli ebrei, ndr) mi dà molto da pensare sulla serietà del movimento. Lueger a Vienna si procurava con lo stesso mezzo anni fa una facile popolarità. Ma questi successi demagogici o non durano o conducono al disastro delle nazioni». La lettera si concludeva con l’esortazione a volersi occupare compiutamente, sulla rivista, della questione ebraica. Cosa che Schulenburg fece, vergando un articolo, documentato e coraggioso, nel quale si occupò dei sinistri bagliori antisemiti che percorrevano la Germania. Un pezzo che, tuttavia, fu bocciato da Benito Mussolini, al quale era stato sottoposto da Sarfatti per la consueta, preventiva approvazione. Se la denuncia della fobia antisemita affidata alla penna dell’aristocratico tedesco viene cestinata, è tuttavia altrettanto vero che bisogna attendere soltanto pochi mesi perché Gerarchia torni a occuparsi del tema. Il partito di Hitler fa un balzo elettorale gigantesco affermandosi 14 settembre 1930 alle urne come il secondo partito tedesco, con 107 deputati. E Mussolini non può più negare l’evidenza. Sul numero di Gerarchia del novembre 1930, Schulenburg firma con il proprio nome parole dure e inequivocabili contro il movimento delle camicie brune: «L’autore di queste righe va d’accordo su molti punti con le richieste di Hitler, ma gli sarebbe impossibile di seguirlo nelle sue pretese contro gli ebrei». E conclude: «Un assoluto dominio dei socialnazionali equivarrebbe a una piena catastrofe».
Panorama, 09 giugno 2008 Autori: Pasquale Chessa - Roberto Festorazzi

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