giovedì 10 luglio 2008

Haifa

SOTTO LA STELLA DI DAVIDE

Incontri con gli scrittori di Israele

7 LUGLIO 2008
Lizzie Doron è il primo tra gli scrittori che incontreremo in questi giorni.
Nata a Tel Aviv nel 1953, dopo aver vissuto a lungo in un kibbutz sul Golan, è ritornata nella città natale. I suoi libri hanno ottenuto un vasto successo e le sono valsi prestigiosi riconoscimenti….
Così recita la biografia ufficiale di questa signora bionda, coi capelli raccolti in un’acconciatura sbarazzina, il sorriso sorpreso di chi ancora non si rende conto in pieno di come mai tanti, pure nel nostro Paese, abbiano letto con commozione il suo “Perché non sei venuta prima della guerra?”, edito da Giuntina: un testo breve, ma intensissimo, che leggi in mezza giornata perché, una volta cominciato, non ti riesce di deporlo e devi arrivare all’ultima riga. Poi lo chiudi, questo libretto, e percepisci quanta emozione e amore ti abbiano trasmesso la madre, Helena, la protagonista, e Elizabeth, la figlia (l’Autrice, è ovvio), voce narrante.
Sul palco stasera sono tre: Lizzie al centro, alla sua destra Marina Astrologo, che prima di essere la traduttrice dall’inglese che tutti apprezziamo, è una vera interprete, nella nostra lingua, di parole e sogni, con i quali si diverte a giocare senza turbarli, ma anzi rendendoceli ancor più familiari; a sinistra Bruno Gambarotta, noto regista di programmi RAI e, a sua volta, apprezzato scrittore, che, in queste serate, veste l’abito del padrone di casa/intrattenitore. Ed è proprio lui che ci conduce nel mondo magico, ma quanto mai reale, di Lizzie/Helena, con la classica, ed inevitabile, domanda: Come (e perché) è nato il libro?
Ricordiamo che l’opera, uscita in Italia nel 2008, è stata pubblicata in Israele una decina di anni fa presso l’editore Chalonot di Tel Aviv col titolo “Lamah lo bat lifne hamilchamah”.
“Non avevo mai sognato di diventare scrittrice” ammette Doron candidamente “ero troppo impegnata all’Università, con il mio dottorato in ‘Scienze cognitive’ per pensare ad altro. Poi, un giorno, mia figlia mi domanda un aiuto per il suo progetto ‘Radici’: in Israele la scuola chiede ai ragazzi, giunti all’età dell’adolescenza, di ricercare le origini della propria famiglia, affinché si impadroniscano della loro storia e memoria. Io sapevo ben poco dei miei genitori: non ho conosciuto mio padre, morto prematuramente di TBC, quanto a mia madre, beh, non avevo mai riflettuto a lungo su di lei…. Non possedevo documenti che parlassero di loro, nulla. Ma mia figlia era insistente perché, tra l’altro, desiderava riportare buoni voti in quella ricerca sulle ‘Radici’!” Lizzie ha un atteggiamento smitizzante mentre, nel suo inglese senza sbavature, ci racconta che, ottenuto un permesso dall’Università, si è messa a lavorare sui suoi, all’inizio scarsissimi, ricordi personali. “Mai e poi mai avrei immaginato che essi sarebbero finiti in un libro dato alle stampe! Dopo un certo tempo, una mia collaboratrice universitaria, non vedendomi più nell’ambiente, mi venne a trovare, temendo che avessi qualche grave problema. Conosciuta la vera ragione di quella scomparsa, dette un’occhiata al mio lavoro e sentenziò: è un gran libro! Di sua iniziativa, è stata lei ad inviare per posta elettronica, con un semplice clic, il mio elaborato a diversi editori e….quante telefonate! Ma tra tutte” prosegue “una mi ha conquistata. Una signora anziana, dall’inconfondibile accento ungherese, mi cercò. Era proprietaria di un piccola casa editrice, mi parlò col cuore dicendomi che avrebbe voluto abbracciarmi. Quando ci incontrammo, vidi che sul braccio aveva tatuato un numero….Le dissi subito: il mio testo è Suo. Ne faccia ciò che vuole; io desidero solo ritornare al mio lavoro”.
Quel testo è stato conosciuto ed apprezzato in tutto il mondo e da pochi mesi, grazie ai Vogelmann, anche nel nostro Paese. E’ un vero peccato che stasera non siano tante (o almeno me ne aspettavo in maggior numero) le persone venute a vedere ed ascoltare Lizzie: forse perché lei è “solo” una scrittrice, non ha -almeno non ha ancora; né spero abbia mai, indipendentemente dalle sue posizioni politiche- la facciata di “opinion maker” sul conflitto israelo/palestinese, che rende tanto popolari da noi i suoi più celebri colleghi, come Oz, Grossmann, Yehoshua, a prescindere dai -o almeno prima dei- loro stupendi romanzi? Come che sia, la presenza di Lizzie ne rende viva e palpabile un’altra, quella di Helena, sua madre, la protagonista del romanzo. Una figura che si potrebbe definire “straordinaria” se di questo aggettivo non si abusasse, da alcuni anni, fino alla nausea, sulla stampa e nel linguaggio comune.
Helena, cresciuta nel milieu austroungarico, lettrice di Heine, ha vissuto l’indicibile tragedia della “Shoah”, è sopravvissuta, è approdata in Israele. E’ giunta dal Paese “di là”, quello che non si nomina, al Paese “di qua”, quello della rinascita. Ma può rinascere chi è….sopravvissuto? Helena ci prova; vive la sua quotidiana esperienza in un mondo -e in un modo- tutto suo, scevro da condizionamenti esterni e senza scendere a patti con la comune realtà. Tutta la vita fa i conti con quel sentimento, contro il quale pure sua figlia confessa di aver combattuto (creandosi una propria identità, una biografia diversa, come lei afferma, a prescindere da quella materna), che è la “vergogna” di chi è uscito dall’inferno: la vergogna che, per ironia della vita, non colpisce certo i carnefici, bensì le vittime.
Un sentimento che Helena prova, ad esempio, davanti a Marek, una sorta di…aspirante parente -vero “sabra”: camicia blu, pantaloni corti, puzzo di vacca-, che le domanda, senza tanti complimenti: “Perché la tua bambina è così pallida e magra? Cosa sono questi vestiti diasporici? E perché, dimmi, perché non sei venuta prima della guerra?” Tale domanda, all’apparenza bizzarra, che dà, in modo perspicuo, il titolo all’opera, è il nocciolo del problema poiché fa emergere il rimprovero (da cui discende il sentimento di vergogna) rivoltole, nel Paese “di qua”: se ti fossi ribellata, se fossi venuta “prima”, l’orrore ti sarebbe stato risparmiato. Contrasto tra questi due “Paesi”, che assumeva contorni drammatici: Lizzie ci racconta che, in prima elementare, l’intera classe dei suoi compagni era composta da piccoli figli di sopravvissuti; per farli integrare meglio nella nuova Patria, che anch’essi avrebbero contribuito a costruire, erano stati affidati ad una maestra “sabra”. Ciò aveva provocato la reazione negativa dei genitori, contrari ad affidare i loro figli ad una….“straniera”: per protesta, dopo essere stati allontanati dalla classe dove si erano insediati, avevano continuato a stazionare nel cortile della scuola per sorvegliare la situazione!
Il libro sfugge ad una definizione precisa; lo si può considerare un diario/memoriale/romanzo, composto da circa una ventina di racconti / capitoli (riferiti agli anni ’60 e ’70, alcuni con postfazioni agli anni ’90, all’epoca della morte di Helena) legati dalla figura di lei, dove la “Shoah” non viene descritta in modo, per così dire, realistico, ma immaginata in base alle sue conseguenze sulle persone nel prosieguo del tempo. Per questo motivo, la sua spaventosa realtà è ancora più evidente. Indimenticabile, tra gli altri, è il personaggio di Sarale, anch’ella sopravvissuta e segnata per sempre: vorrebbe testimoniare al processo Eichmann, ma le viene impedito perché è considerata un po’ folle. Helena si batte presso diverse persone ed istituzioni perché, invece, questa testimonianza sia ascoltata, con la seguente motivazione ”……la testimonianza di coloro che sono rimasti sani è da considerarsi non valida, poiché a quanto pare hanno passato una Shoah leggera. Sarale, vostro onore, al banco dei testimoni non deve dire nemmeno una parola. Basterà farla stare lì in piedi perché tutto il mondo veda che shoah Eichmann le ha provocato nell’anima”. Invano.
Il giorno in cui il criminale nazista viene impiccato, Sarale si getta nel vuoto.
Non mancano spunti umoristici, di vera ironia yiddish. Sui metodi e le concezioni educative del Paese di “qua”, ad esempio. O come quando la protagonista organizza un ricevimento a casa sua per i colleghi di lavoro, ma non desidera che questi vedano la modestia dell’appartamento in cui abita, nonostante i numerosi tentativi di migliorare la situazione, pulendo, verniciando, aggiustando questo e quello…..
Allora, prima che la festa inizi, ricorre ad un brillante éscamotage: con il pretesto di fare un giretto nel circondario insieme alla sua cagna…..che cosa fa?
Lascio al lettore il piacere della scoperta dell’universo di Helena, del suo corrucciarsi perché ci sia un solo D-o (che di certo non ama gli Ebrei) e non due, cosicché il secondo avrebbe potuto correggere gli sbagli commessi dal primo; del rifiuto di accettare i risarcimenti della Germania a Israele o i regali per la figlia” made in Germany”; oppure la pervicacia con cui ella si libera di certe porcellane di fabbricazione bavarese…..
Ironie nell’ironia: sua figlia Elizabeth, la nostra Lizzie, riscuote grande successo in Germania.
A proposito del rapporto tra il clima drammatico in cui Israele è immerso (prima ancora di nascere) e la forte qualità della sua letteratura, la scrittrice conferma tale legame e pone l’accento sull’essenzialità del Paese, sul fatto che in Israele, rispetto ad altri contesti, vi sia “meno gioco e più temi autentici”.
Ritorna sull’immagine, richiamata pure da un altro autore da poco conosciuto, Ron Leshem, di Israele come “paradiso per gli scrittori perché è una sorta di colossale ospedale psichiatrico in cui i pazienti, gli Ebrei, soffrono di patologie postraumatiche”. Con immagini sarcastiche ella suddivide l’ospedale in tre reparti: nel primo vi sono gli “psicotici”, che non vivono nella comune realtà, ma in un mondo creato da loro e per loro (e sono gli abitanti del “West Bank”); il secondo accoglie chi che cerca ogni giorno di andare avanti, pur consapevole della difficile situazione (la maggior parte dei cittadini, gruppo in cui inserisce pure se stessa); nel terzo stanno quelli cui Israele va, in qualche modo, stretto e cercano altrove, in Estremo Oriente o a zonzo senza una meta precisa, la soluzione ai problemi della vita.
Tutti noi, pazienti dei tre reparti, ride, scriviamo lettere al mondo: esse sono i romanzi che voi leggete!
Nella conversazione su realizzazioni, programmi e progetti, ci ha parlato di altri quattro libri -nessuno, a tutt’oggi, pubblicato in Italia, ma Giuntina può sempre darsi da fare!-, dopo il primo. Il secondo le è stato ispirato da alcuni amici che vivono nel suo quartiere. Protagonisti sono sette giovani uccisi nel primo giorno della Guerra di Yom Kippur del 1973; molti di loro erano figli unici. Chi custodirà la loro memoria, se non la nostra Autrice? Il volume, che ha significato un altro congedo dall’Università (!), è un best seller in Israele. Il terzo libro raccoglie i ricordi infantili della terza generazione dopo la Shoah, mentre il quarto si sofferma sull’esperienza “mia e di altre mie amiche, tutte donne nate in Israele, che fanno i conti con il grave tema del senso di colpa e della vergogna”. Al quinto sta lavorando. E’ l’esperienza più problematica, ci confessa. Problematica perché “nel romanzo è racchiuso un mio segreto personale. Con l’ultimo libro torno all’origine, cioè in Germania”.
Anzi, conclude, questi libri possono essere considerati un “unicum”: una sola storia che nasce in Europa, cresce nella tragedia, giunge e si ferma in Israele, per poi tornare, circolarmente, all’origine.
Mara Marantonio Bernardini, 7 luglio 2008
http://www.mara.free.bm/

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