giovedì 27 novembre 2008

Classi ponte? In Israele si fa così

Lui si definisce «la quintessenza dell'immigrato». E in effetti la sua storia è un percorso a tappe, prima tra le città d'Italia, poi in Europa, per concludersi con l'approdo in Israele. «A Roma ero il veneziano, a Milano il romano. Poi in Israele sono stato immigrato a tutti gli effetti...». Ed è qui che Shaul Ben Torah ha potuto mettere a disposizione degli altri la sua esperienza personale, elaborando in particolare dei progetti per accogliere e inserire a scuola bambini stranieri appena arrivati in Israele. Un tema non così distante dall'Italia, anzi: la questione dell'inserimento dei figli di immigrati nelle classi italiane è di grande attualità in questo periodo, tanto da sollevare persino polemiche politiche: la Lega ha proposto di "differenziare" le classi, la sinistra è insorta, poi l'idea è stata mitigata dal governo nell'ipotesi delle classi “ponte”, cioè transitorie.E in Israele? Qui Shaul Ben Torah ha messo a punto un sistema molto flessibile e graduale che consente ai bambini appena arrivati di sentirsi parte di una classe fin da subito, ma al tempo stesso garantisce a loro degli spazi separati nei quali imparare la lingua. Un'esperienza che ora Shaul Ben Torah sta proponendo alle scuole in Italia, dove è stato ospite nelle scorse settimane su iniziativa della Adei-Wizo l'associazione delle Donne Ebree d'Italia, per un seminario di formazione per insegnanti.A Venezia Shaul Ben Torah ed Edna Angelica Calo Livne (vedi articolo sotto) sono stati ospiti la scorsa settimana del Liceo Foscarini e della sezione veneziana dell'Adei. «Fin da bambino sono stato un immigrato - ha raccontato a GV - ho trascorso 4 anni bellissimi a Venezia, frequentando la scuola elementare e la scuola ebraica. Mio padre era un chimico, direttore del laboratorio alla Dogana, poi gli fu offerto un posto alla Zecca di Roma, così ci trasferimmo. Questo fino alle leggi razziali. Ci trasferimmo a Ginevra, poi a Viareggio, a Milano... Io non potei più frequentare la scuola, mi fermai alla seconda media». L'impatto con la crudeltà del nazi-fascismo non lascia indenne la sua famiglia: Shaul perde la madre internata ad Auschwitz, mentre il padre viene ucciso in un bombardamento. Si ritrova solo e al termine della guerra abbraccia il sogno sionista, trasferendosi in Israele, nel paese che nasceva in quegli anni. «Lì ho sperimentato io per primo cosa significa l'integrazione: ho frequentato una scuola agricola, ma noi italiani eravamo pochissimi così venivamo messi insieme ai turchi... come se tra noi ci fosse un'affinità. Ma quale affinità? Litigavamo sempre. Poi sono stato in un kibbutz per sette anni, dove ho fatto l'agricoltore, ma ho anche iniziato ad insegnare agricoltura ai ragazzi. Erano tutti figli di immigrati e mi occupavo di loro al pomeriggio, anche la sera».Un giovane studente e i bulli del villaggio. La svolta avviene con l'arrivo di un giovane studente di Gerusalemme che inizia ad occuparsi del gruppo di ragazzini più "ribelli". «C'era un gruppetto che non seguiva più le lezioni a scuola e stava diventando un problema per l'intero villaggio. Lui cominciò ad incontrarli, fuori dalla scuola, riunendoli sotto un albero. Raccontava storielle che divertivano i ragazzi. Da quelle storielle è passato ai quiz e poi a lezioni quasi scolastiche. Finché non propose al villaggio di aprire una scuola per loro, un centro giovanile per l'educazione e l'apprendimento professionale. Siamo a cavallo tra gli anni '60 e '70 quando il centro si sviluppa, con modalità un po' diverse rispetto alla scuola tradizionale. Intanto non c'era la suddivisione canonica in classi, che non avevano una classificazione numerica, ma dei nomi (cipresso, frumento). Poi si praticava molto sport, c'erano varie attività per l'apprendimento professionale». Shaul racconta tutto questo perché ne viene coinvolto in prima persona: «Pur avendo solo la seconda media, ho cominciato ad insegnare là. Intanto studiavo per conto mio». Mentre si sposa e la sua famiglia comincia a crescere, Shaul consegue la maturità a 40 anni e a 43 si laurea. E diventa direttore del centro. «Poi mi è stato offerto di dirigere il Villaggio della gioventù, che si occupava di ragazzi più grandi. Due terzi di essi vivevano normalmente con le famiglie, un terzo erano immigrati o con problemi». E' con loro che Shaul sperimenta modalità diverse di integrazione: «I ragazzi stavano insieme per alcune ore, mentre in altri momenti venivano divisi». L’arrivo dei vietnamiti. Shaul ricorda l'episodio della nave di profughi vietnamiti dalla Cina: «Nessuno voleva quella nave e Israele si offrì di ospitarla. Molti ragazzi arrivarono alla nostra scuola, ma non parlavano una parola di inglese. C'era però un farmacista che parlava inglese e cinese e ci aiutò. Pian piano vennero integrati nelle classi».E oggi? «Anche oggi Israele è terra d'immigrazione. Arrivano soprattutto dall'Etiopia, ma anche dai paesi dell'ex Urss e persino dall'Argentina. Con gli immigrati etiopi i problemi sono parecchi, perché arrivano dalle campagne, sono pastori totalmente privi di istruzione. Si deve perciò iniziare da zero». Due le strade seguite al Villaggio della gioventù: «O li si ospita 24 ore su 24, ma così li stacchiamo dalla famiglia e non è positivo. Oppure proponiamo loro le lezioni del mattino, integrate da altre al pomeriggio per insegnare la lingua e perché si mettano in pari. Così rientrano in famiglia la sera e in questo modo noi possiamo educare i ragazzi, ma indirettamente anche i loro genitori».Ecco allora che dall'esperienza del Villaggio della gioventù arrivano delle preziose indicazioni anche per le scuole italiane, che si interrogano sulle classi separate: «Credo che la via migliore sia quella intermedia. E cioè è bene che i ragazzi stranieri che arrivano si sentano già parte di una classe e condividano alcuni momenti, ma inizialmente non tutti. Possono condividere l'educazione fisica, le uscite, magari anche le lezioni di matematica. Intanto a parte seguono lezioni per apprendere la lingua. E periodicamente viene verificata la possibilità dell'inserimento complessivo». Come in Italia, anche in Israele non è che la scuola goda di finanziamenti extra per garantire questo tipo di progetti. Però ci sono dei supporti che colmano in parte le lacune: «Sono previste delle borse di studio specifiche agli studenti che offrono il loro tempo per le lezioni pomeridiane ai ragazzi. Poi abbiamo l'esercito e sono tante le soldatesse che offrono per un periodo la loro presenza nelle scuole».Il maestro prevalente? Una garanzia contro i bulli. Una figura che è molto marcata in Israele e di cui invece si sta dibattendo in Italia è quella del maestro prevalente: «C'è sempre un insegnante che ha la responsabilità dei ragazzi e dei rapporti con la famiglia. Viene pagato di più, ma è disponibile a qualsiasi ora. Se c'è un atto vandalico la notte, lui viene chiamato e deve accorrere». Gente Veneta , no.44 del 2008

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