mercoledì 5 novembre 2008


DAVID GROSSMAN "A UN CERBIATTO SOMIGLIA IL MIO AMORE"

Arnoldo Mondatori Editore S.p.A., 2008, pp. 781 €. 22,00
All’inizio udiamo solo le loro voci che riecheggiano nel buio della notte: siamo nel reparto di isolamento di un ospedale di Gerusalemme durante la Guerra dei Sei Giorni, nel giugno 1967. Voci che esprimono rabbia e concitazione, soprattutto quella di Avram, dall’inconfondibile accento russo; oppure meraviglia, ansia e desiderio di condividere le proprie paure, quella di Orah. Dopo alcuni colloqui a due, in un misto di confidenze e sfide reciproche, ecco una terza voce, Ilan, che indoviniamo come il “bello” del trio. Voci e ombre cinesi. Sono tre sedicenni che, in quelle drammatiche ore, mentre fuori impazza una terribile battaglia, la cui eco giunge loro lontana, imparano a conoscersi: si provocano, litigano, si riappacificano, si tastano, si sfidano, rivelando l’un l’altro i più reconditi segreti. Nessuno pare conoscere l’aspetto dell’altro; forse si sono incrociati in precedenza, forse no. Dopo il saggio politico “Con gli occhi del nemico” (2007) e la riproposizione del libro per l’infanzia, del 1990, “La lingua speciale di Uri”, David Grossman ritorna con un nuovo grande romanzo, in questi anni segnati dalla tragica morte, il 12.8.2006, nella Seconda Guerra del Libano, del secondogenito, Uri, di 21 anni. David, come egli stesso spiega nella breve, ma significativa, postfazione, aveva iniziato a scrivere il libro nella primavera del 2003 e confessa che nutriva la speranza che la sua opera in divenire proteggesse in qualche modo misterioso il figlio impegnato con il rischioso servizio militare nei “Territori”. Terminata la settimana di lutto lo scrittore è ritornato alla sua storia, la cui maggior parte era compiuta. “Ciò che era cambiato, per lo più” egli annota “era la cassa di risonanza della realtà in cui è avvenuta la stesura definitiva”. “Una donna in fuga da una notizia” si intitola il romanzo nella lingua originale; mentre come “A un cerbiatto somiglia il mio amore” è presentato nell’edizione italiana: il riferimento è a una frase di Orah in cui ella, nel rammentare un versetto del Cantico dei Cantici, si diverte con un gioco lessicale tra il sostantivo “cerbiatto” e il nome del personaggio, intorno al quale ruota tutta la vicenda, che in ebraico si dicono allo stesso modo: Ofer. Dopo la parte iniziale che accompagna la nascita di una grande amicizia, facciamo un balzo in avanti di circa un quarantennio. Orah è una donna di mezz’età, separata dal marito Ilan, madre di due figli, Adam e Ofer. Mentre Ilan e il primogenito si trovano all’estero, ella progetta con Ofer un viaggio in Galilea, per festeggiare il termine della ferma triennale di lui. Senonché il giovane, proprio all’ultimo, è richiamato per un’operazione militare in Cisgiordania. La notizia getta la madre nel più profondo sconforto: ella cova nell’animo un oscuro presentimento di morte da cui non sa liberarsi. Pensa, di continuo, a quando “loro”, gl’incaricati dell’esercito, seguendo il consueto rigido cerimoniale, busseranno alla sua porta, magari di notte, e le declameranno la frase di rito che la schiaccerà. Oppressa da simile angoscia, Orah decide di partire ugualmente; la sostiene un pensiero assurdo: se “loro” non l’avessero trovata, se fosse stato impossibile rintracciarla, la brutta notizia sarebbe stata, in qualche modo rispedita al mittente e…a Ofer non sarebbe accaduto nulla di male. Ella è perfettamente consapevole che tutto ciò non ha letteralmente senso, ma la razionalità ha forse a che fare con l’amore? Orah sceglie di non partire sola. Costringe l’antico amico Avram, con il quale il legame intrecciato da ragazzi si è sempre mantenuto vivo, ad accompagnarla in un lungo peregrinare a piedi. Fin dove? Fin dove finisce Israele. Un viaggio nello Spazio, ma anche nel Tempo. Essi si incamminano. Orah davanti, agile, motivata, che parla, parla; Avram, dietro, invecchiato, appesantito, silenzioso, non ancora cosciente delle motivazioni che stanno alla base dell’avventura in cui è stato trascinato; concentrato solo sul presente, perché futuro e passato lo angosciano, oppresso da un dramma che ha lasciato su di lui una traccia indelebile, la cui natura il lettore dovrà scoprire nella lettura del romanzo. Man mano che i due proseguono col cammino si schiudono davanti a loro -e a noi- le bellezze del paesaggio israeliano, descritte in modo vivido e partecipato: le querce, i terebinti di biblica memoria, i fiori dai mille colori, i cieli, le mucche al pascolo; l’odore pungente di salvia che giunge fino alle narici … Rumori della natura e…..Rumori dell’anima. Incontri con altri gitanti, alcuni davvero insoliti. Di che parla Orah a Avram? Gli parla di Ofer, del suo “Sorgen Kind”, dal giorno in cui egli è nato: per farlo sentire vivo, per salvarlo. A volte, oltre alle parole, usa gesti simbolici. Scrive, perfino: in un quaderno annota pensieri su Ofer. Valore terapeutico della scrittura: ricomposizione di realtà infrante. Bellissime le pagine in cui pian piano ella comincia a comprendere “come” dovrà parlare del figlio a quest’uomo cui la vita ha riservato tante porzioni di dolore. Ella comincia da lontano, da prima della nascita del primogenito Adam, vicenda che spezzò l’armonia perché….Adam, che assomiglia tanto a suo padre Ilan, nello sguardo verde intenso, ricco di fascino, e nel carattere intransigente. Coinvolto nel gioco, Avram chiede a Orah che gli racconti Ofer, ma senza dimenticare affatto Adam! E senza mostrare foto, se non dopo diversi giorni. Con un linguaggio ricco di sfumature, in un continuo intrecciarsi tra passato e presente, l’Autore esprime lo sforzo, l’ansia di vivere in un contesto estenuato dalla durezza della guerra. A volte si avvale di espressioni che richiamano una prosa dagli accenti omerici, primigeni, come quando descrive il letto in legno che Ofer, adolescente, si era costruito per sé, ma che poi aveva deciso di donare ai genitori. Il libro è densissimo, quanto a legami, pensieri, immagini. Tema principale, espresso con un fine studio psicologico, è il rapporto complesso che lega tre persone -Orah, Avram e Ilan-, al di là del tempo e del vissuto di ciascuna; ci si può perfino separare, nella vita di tutti i giorni e per qualche tempo, ma si resta uniti per la vita. Viene spontaneo l’accostamento a “Jules et Jim”, del francese Henri Pierre Roché, dal quale un altro cantore dell’animo umano, il regista François Truffaut trasse, nel 1962, un incantevole film. Il romanzo non ha una vera propria trama, ma contiene tante tematiche, legate l’una all’altra, come i personaggi che incontriamo. Il dramma di una madre, in ansia per il più “luminoso” dei suoi figli, si rispecchia nel dramma di una Nazione che sperimenta lo scarto tra la rischiosa esistenza quotidiana e quella che si potrebbe (e vorrebbe) vivere. Le pagine dedicate a Avram in pericolo -durante la guerra di Yom Kippur del 1973- sono degne di un grande scrittore di guerra, tanto sono dense di significato. Ma altrettanto mirabile è il contesto nel quale Orah viene a conoscenza di quel tragico episodio. Un altro tema è quello della Terra, della Natura, in un approccio di condivisione, magari anche solo di un semplice cibo acquistato nel più vicino supermarket, che caratterizza il viaggio dei due amici. La natura avvicina gli esseri, umani e non. C’è il tema dell’Amore per il proprio Paese, espresso senza alcuna retorica, ribadito da Avram a Orah: “Avrebbe voluto dirle che solo qui in questo paesaggio, tra queste rocce, questi ciclamini, sotto questo sole e parlando in ebraico, la sua vita aveva un senso”. E non manca l’Angoscia per il futuro dello stesso Paese: durante il cammino essi incontrano molti monumenti, cippi, stele, dedicati a militari morti in azioni di guerra, eretti nei luoghi in cui essi sono caduti. Orah si domanda sgomenta: “Come andrà a finire…..non c’è più posto per tutti questi morti”. E’ infine un romanzo sull’essere genitori, sulla famiglia nel suo complesso, perché non si può parlare di un membro della stessa senza coinvolgerli tutti. L’opera è significativamente dedicata ai familiari, che David nomina: Michal, la moglie, Yonatan e Ruti, il primogenito e l’ultima nata, e “Uri, 1985-2006”. Le pagine sulla Maternità sono molto forti: commuove che un uomo abbia saputo penetrare così profondamente la sensibilità femminile in momenti che una donna / madre difficilmente riesce, anche volendolo, a condividere col compagno. Ma altrettanto coinvolgente è la voce della Paternità, scoperta pian piano, lungo la strada, su ogni sentiero, in un’ascensione verso il Divino.
Mara Marantonio Bernardini, 3 novembre 2008 http://www.mara.free.bm/

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