lunedì 9 febbraio 2009

JONA OBERSKI ANNI D’INFANZIA

(Trad. Amina Pandolfi, Ia ed. Mondadori, Febbraio 1982 pp. 124; II ed. Giuntina, 1989)
Ma tu sei malato già da cinque giorni e hai avuto un febbrone terribile……Sentivo di avere la febbre. Ma alla storia dei cinque giorni non ci credevo. C’era un buco nero nel tempo”.
Un amico ricco di sensibilità e cultura, Luca Alessandrini, direttore dell’Istituto Regionale per la Storia della Resistenza “Ferruccio Parri” di Bologna -che vanta pure una fornitissima biblioteca-, mi ha consigliato la lettura di questo libretto, risalente a molti anni fa, ma attualissimo. “Si tratta di un approccio al tema della Shoah originale per gli anni in cui fu scritto; da un olandese, il quale narra la sua esperienza”. Così mi ha detto, in tono un po’ criptico; senza peraltro spiegarmi in che cosa consistesse l’originalità. Ovviamente ho subito seguito il consiglio.
L’Autore, nato ad Amsterdam nel 1938, membro di un importante istituto di fisica nucleare, nel 1977 scrisse quest’opera che, uscita in Patria due anni dopo e successivamente in diversi Paesi nel mondo, suscitò un notevole interesse di pubblico e critica. Negli anni ’80 il regista italiano Roberto Faenza ne trasse un film “Jona che visse nella balena”. Teatro della vicenda sono gli anni 1942/1945, durante l’occupazione tedesca dell’Olanda. Obierski racconta in prima persona le vicende di un piccolo ebreo che, all’età di quattro anni, viene deportato in un campo di concentramento insieme ai genitori. In un primo momento madre e figlio vengono rimessi in libertà, ma non per questo la situazione della famiglia si rasserena, anzi il piccolo si trova a vivere situazioni in apparenza banali, che tuttavia si colorano di grave minaccia. Poco dopo, infatti, l’intera famiglia viene deportata in un lager. Là Jona viene a contatto con la terribile realtà della fame, delle privazioni e, soprattutto, della morte. Dapprima del padre, evento cui vuole assistere per una sorta di emulazione -e ricerca di accettazione- nei confronti degli altri bambini, deportati come lui, indi dell’adorata madre, che non resiste alle dure privazioni e alla perdita del coniuge. La storia è emozionante proprio perché è vissuta attraverso gli occhi e il cuore di un bambino dai quattro ai sette anni, non completamente consapevole di quanto gli sta accadendo e al quale viene fatto credere dai familiari, per non spaventarlo (e magari in una sorta di autoillusione), di essere in viaggio per la Palestina. I singoli episodi sono riportati, per così dire, allo stato nascente, senza valutazione o spiegazione, espressi in un linguaggio elementare, talora immaginifico, filtrati, anche quelli più tragici, da quell’apparente indifferenza infantile che noi adulti a volte riteniamo, sbagliando, priva di conseguenze nel futuro. “Un bambino guarda intorno a sé con gli occhi sgranati” affermava lo scrittore israeliano Etgar Keret durante un incontro a Roma, tre giorni fa, nel ricordare la storia, davvero tragica, della sua famiglia d’origine; la tragedia può raggrumarsi in un lato oscuro della personalità, suscettibile di emergere, egli proseguiva, da un momento all’altro (che infatti riaffiora, qua e là, all’improvviso, nelle opere di Etgar, solo in apparenza dissacranti come, ad esempio, il film “Meduse”).Sarà grazie ai genitori adottivi incontrati dopo la liberazione, coloro ai quali il libro è dedicato, con parole poste significativamente al termine dello stesso, che il piccolo Jona ritroverà quell’equilibrio per affrontare e superare pian piano i suoi incubi (“il buco nero nel tempo”) e donarci, dopo averla rielaborata a circa un trentennio di distanza, questa toccante testimonianza. Mara Marantonio Bernardini, 8 febbraio 2009

Nessun commento: