lunedì 30 marzo 2009

kascerut in Cina

EBREI GLOBALI Beijing: gli ebrei della città proibita

Sono 1500 anime. Imprenditori, manager, giornalisti. Con famiglia. Ecco come vivono nella capitale del business planetario.Nel 1996 abbiamo celebrato il nostro primo bar mitzvah e nel 1997 il nostro primo b’rit milah, una bella impresa in una città senza neanche un rabbino”. C’è ancora chi, a Pechino, ricorda con emozione quei tempi da pionieri. Perché rispetto ad altri insediamenti in Cina, qui la comunità ebraica si è sviluppata molto di recente. Per l’esattezza dal 1979, quando, dopo la politica di apertura di Deng Xiaoping, cominciano ad arrivare i primi uomini d’affari e diplomatici, tutti americani. Per il resto non c’è molto altro. “Appena giunta qui, c’erano solo pochi ebrei che vivevano negli alberghi” dice Roberta Lipson, americana, amministratore delegato di una società di tecnologia medica e una delle fondatrici di Kehillat Beijing. Kehillat è un’associazione reformed americana che comincia a riunire i primi ebrei per pregare e mangiare insieme a casa dell’uno o dell’altro. Nel 1992, quando Cina e Israele stabiliscono relazioni diplomatiche, Kehillat Beijing organizza il primo Seder insieme all’ambasciata israeliana. L’associazione cresce fino a seguire una cinquantina di famiglie e a istituire una scuola domenicale, Ahavat Ytzchak, che oggi istruisce 40 bambini. Tuttavia la vita a Pechino è più difficile per il crescente numero di ebrei osservanti che vogliono seguire la kashrut: non c’è il rabbino né una sinagoga né una scuola. Di cibi kasher neanche l’ombra, a meno di mangiare vegetariano nei ristoranti cinesi. La lingua impenetrabile, le vaghissime nozioni d’igiene e un sistema a dir poco opaco di produzione, controllo e distribuzione delle merci, rendono avventurose anche le azioni più banali. “Una piega dal parrucchiere o l’acquisto di un petto di pollo qui sono cose a rischio, finché non si trova l’indirizzo giusto”. Per dirla con Rachel Vantoben, venuta dalla Svizzera in sabbatico postlaurea e neoiscritta al corso Survival Chinese: “Come fai a preoccuparti del cibo kosher se devi controllare che il latte che compri non sia già scaduto da una settimana?”. “In effetti all’inizio, gli unici due alimenti kosher qui a Pechino erano lemon juice e ketchup”, ammette Rabbi Freundlich con un sorriso, “le cose sono molto cambiate da allora”. Shimon Freundlich e sua moglie Dini, lui di origine inglese, lei sudafricana, arrivano a Pechino nel 2001, dopo otto anni a Hong Kong. A differenza di Shanghai, Canton, Shenzhen, e persino della gelida Harbin, Pechino è priva di un vero centro religioso e comunitario che possa soddisfare anche gli ebrei più osservanti. Fondano quindi la Chabad Lubavitch Beijing, che negli anni è diventata il cuore della numerosa e sempre più cosmopolita comunità locale (circa 1500 persone, di cui 900 residenti fissi). Azerbaijian, Usa, Russia, Israele, Canada, Australia, Francia, Germania, Ungheria e Polonia sono i principali paesi di provenienza di un gruppo di diplomatici, giornalisti, uomini d’affari, esperti di high-tech, insegnanti e ingegneri, con le loro famiglie. “Volevamo creare una casa per tutti gli ebrei fuori casa”, aggiunge Dini, “ecco perché ci siamo mossi su più fronti”. La Chabad House, dimora della famiglia Freundlich, è una villetta in perfetto stile americano (Shimon e Dini hanno cinque figli). Da fuori sembra identica a tutte le altre case, dentro invece ospita un piccolo museo sino-giudaico, la sinagoga (in Cina ci sono cinque religioni riconosciute, e l’ebraismo non è fra queste, ed è vietato costruire edifici per i culti non autorizzati), dove viene celebrato lo Shabbat con rito ortodosso. Al tramonto del venerdì e alle 11 del giorno dopo vengono offerti i pasti dello Shabbat. Il Chabad Community Center, è dove hanno sede Mei Tovah, un mikveh e, dal 2002, la Ganeinu International School, una scuola montessoriana riconosciuta che educa oggi circa 50 bambini, da un anno e mezzo fino ai 12, 13 anni. Chabad Yabaolu è la terza sede, che serve soprattutto gli ebrei del centro città e i circa 2-300 russi, ed è infatti gestita da Rabbi Mendi Raskin, israeliano di lingua russa, sotto la supervisione di Freundlich. Il “quarto polo” per Chabad Lubavitch, è senz’altro il Dini’s, vicino all’ambasciata israeliana, unico ristorante kasher della città inaugurato nel 2007. Intelligentemente, Dini’s non si limita a offrire piatti della tradizione ebraica, ma spazia da specialità mediorientali a piatti occidentali e cinesi, persino del sushi. In questo modo riesce a soddisfare una clientela piuttosto ampia e non necessariamente osservante: il 30% dei clienti sono cinesi. Con il progredire dell’apertura verso l’Occidente e del numero di negozi che vendono specialità importate, oggi è diventato molto più facile procurarsi del cibo kosher. Il latte a lunga conservazione arriva da Australia o Francia, mentre un macellaio ogni tre mesi vola in Sudafrica per preparare carne di manzo e pollo, e portarla a Pechino. Ma non basta: l’infaticabile rabbino vola continuamente su e giù per tutta la Cina per certificare l’idoneità di oltre 500 fattorie e coltivazioni che possano così spedire prodotti kosher a tutte le comunità in Asia. L’atteggiamento cinese verso gli ebrei è soprattutto di curiosità: per la lunga barba del Rabbino ogni volta che va al supermercato, ma soprattutto perché nella percezione pragmatico-materialistica cinese gli ebrei sono “bravi a fare soldi”, quindi evidentemente assistiti da una “buona” religione. Dal canto suo, il governo monitora con attenzione e discrezione la comunità, spesso mandando “in visita” un paio di osservatori, per evitare ogni forma di proselitismo. Pur nelle sensibili differenze, Kehillat Beijing e Chabad Lubavitch Beijing sembrano accomunate da una certa apertura, nel tentativo di accogliere e far convivere ebrei provenienti da situazioni molto diverse. “Cerchiamo di concentrarci su quello che ci unisce, non su quello che ci divide” dice Freundlich. “Io non chiedo le credenziali a nessuno. Sono uno strumento di Dio, non il suo poliziotto”. Sante parole, Rabbi.
Nel paese del dragone dai tempi di Marco Polo A Kaifeng, nello Shandong, ha sede una piccola comunità di cinesi che sostengono di essere ebrei.Un’ipotesi parla di una piccola tribù che un millennio fa lasciò la Terra Promessa per arrivare in Cina dopo un viaggio di 7000 km. Un’altra li vuole discendenti di mercanti arrivati in Cina nell’VIII secolo, lungo le Vie della Seta. Marco Polo scrisse di avere incontrato degli ebrei all’epoca della dinastia Yuan. Secondo altri studi la comunità era in realtà islamica: tutto nacque da un errore del gesuita Matteo Ricci, che incontrò uno studente di Kaifeng, A Tian. Costui, visitando la missione gesuita di Pechino nel 1605, disse a Ricci di appartenere a una religione che venerava un unico Dio. Queste parole, e un cappello blu indossato dallo studente, quando i musulmani li portavano bianchi, indussero il missionario a considerarlo un ebreo. In realtà non esistono prove inconfutabili di una Torà. Ma la comunità continua a sentirsi tale, e a sperare in un riconoscimento ufficiale. M. C. di Mavì Cerenza e Marco del Corona, da Pechino (Marzo 2009, da Bollettino Com. Ebraica di Milano n. 12/2009)

Nessun commento: