martedì 17 novembre 2009

Eilat

Rassegna stampa

C’era da aspettarselo poiché la politica palestinese è non meno dorotea di quella italiana. Le elezioni legislative e presidenziali palestinesi, in un primo tempo previste per il 24 gennaio del 2010, non si terranno. Ce ne parla diffusamente Barbara Uglietti su l’Avvenire, articolo che prendiamo quasi in esclusiva considerazione nella rassegna di oggi, dove ancora una volta registriamo scarsità di notizie («no news, good news»?). Ad esso si corredano quanto scritto da il Fatto quotidiano e la Voce repubblicana. La motivazione ufficiale offerta dalla Commissione elettorale che aveva l’incarico di prepararle è che non sussiste nessuna garanzia rispetto al fatto che a tutti i cittadini palestinesi sia concessa, nel medesimo modo, la possibilità di votare spontaneamente e segretamente, senza essere fatti oggetto di coazioni o quant’altro. Due sono le aree critiche, ovvero la striscia di Gaza, dove governa Hamas, e Gerusalemme est, laddove viene denunciato l’atteggiamento del governo israeliano che sarebbe contrario allo svolgimento del voto. Se è ben chiaro il primo problema un po’ più difficile è inquadrare il secondo. Senz’altro da Gerusalemme e Washington è temuto un processo elettorale al buio, dove il rischio è che, come già avvenne tre anni fa, gli elettori consegnino una cambiale in bianco agli islamismi. Quanto però tale preoccupazione condizioni Israele e gli Stati Uniti, al punto da osteggiare la tornata elettorale (non di meno, avendone la forza di condizionarne il loro svolgimento), è difficile dirlo con assoluta sicurezza. Comunque sia, la Commissione si è rivolta ad Abu Mazen, presidente in carica dell’Autorità nazionale palestinese, chiedendogli una proroga nelle date. È altamente plausibile che il leader «dimissionario» - nei giorni scorsi aveva annunciato a gran voce la sua volontà di non ricandidarsi, a causa della montante delusione che lo avrebbe accompagnato in questi mesi dinanzi allo stallo nel processo di pace in Medio Oriente - accolga tali richieste. Suscitando così una rinnovata salva di astiose polemiche da parte dei suoi avversari dell’area islamista. Siamo insomma alla entropia della politica palestinese che sta dimostrando di non riuscire a governare i processi innescati più di dieci anni fa dagli accordi di pace. Ciò per più ordini di motivi riconducibili, essenzialmente, a due fenomeni tra di loro intrecciati: da un lato c’è la frattura, ai limiti della irrimediabilità, tra i sostenitori di Hamas e quelli del Fatah; dall’altro c’è l’oramai cronico regime di «prorogatio» e di traslazione che fa sì che il legislativo, fortemente fazionalizzato dai membri dei due partiti maggioritari, e quindi come tale in grado di autoparalizzarsi, sia incapace di svolgere le sue funzioni, limitandosi perlopiù alla delega all’esecutivo. In questo frangente il governo palestinese, presieduto dal dinamico Salam Fayyad, assomma a sé una parte delle prerogative del Parlamento se non altro poiché è l’unico organismo capace di funzionare concretamente. Non di meno il Presidente dell’Autorità nazionale ha continuato a svolgere le mansioni istituzionali, riconosciutegli nonostante la scadenza del termine del suo mandato risalisse a quasi un anno fa. Abu Mazen sa bene che le probabilità di vedere rinnovato il suo incarico sono incerte, essendo assurto, nell’immagine che parte della popolazione palestinese coltiva e condivide di lui e dei suoi uomini, a una poco invidiabile espressione di ciò che c’è di meno desiderabile nella politica locale: corruzione, nepotismo, clientelismo, inamovibilità ma anche “collusione” con il nemico israelo-americano. In parte tale congerie di idee può avere un qualche fondamento, almeno dal punto di vista palestinese, dovuto però non a una maggiore proclività di Abu Mazen a tali condotte bensì al minore carisma che egli manifesta rispetto al suo predecessore Yasser Arafat. Al riguardo si legga l’articolo di Hillel Frisch su il Jerusalem Post ma anche quello dell’ever-green Uri Avnery, comparso su The Palestine Chronicle e tradotto in italiano l’Internazionale. L’attuale presidente, che può oramai essere considerato quasi un gerontocrate, prossimo com’è ai settantacinque anni, sconta il grave handicap di essere nel medesimo tempo troppo vicino ai veri centri di potere della politica palestinese, il notabilato urbano delle grandi famiglie, e troppo lontano dalla possibilità di esprimere convincentemente un antidoto alla svolta generazionale che Hamas ha rappresentato. Quest’ultima, infatti, da sempre si candida a rappresentare le classi di età più giovani, quelle che hanno fatto la prima e la seconda intifada ma che si reputano escluse dai benefici degli accordi firmati più di un decennio fa. Del pari a qualsiasi altro movimento islamista Hamas fa appello alle «forze più giovani» della società locale, cercando di capitalizzarne il malcontento, che deriva soprattutto dalle difficoltà economiche e dall’esclusione da un mercato del lavoro in grave difficoltà. La leadership islamista si presenta con una immagine di dinamicità, nonché di attenzione ai problemi sociali, che manca completamente al Fatah, introflesso e ripiegato nelle lotte intestine di potere. La divisione politica, maturata nel corso degli anni Novanta, si è quindi trasformata in uno scontro tra due segmenti del mondo palestinese, fortemente inclinata verso una guerriglia civile. L’insediamento su base geografica dei due gruppi politici, il forte peso che hanno nell’economia locale, il buon seguito che riescono a raccogliere tra la popolazione, rende ancora più nette le linee di separazione. Hamas ha capitalizzato essenzialmente tre fattori: il primo è la crisi delle ideologie laiche, conseguente al 1989, e il bisogno, tra diversi strati della società locale, di rifarsi ad una concezione del mondo di natura messianico-salvifica, che l’organizzazione islamista ben rappresenta; il secondo è il tracollo morale e la grave crisi di legittimità che ha coinvolto (e in parte travolto) i vecchi organismi di rappresentanza del mondo palestinese, quelli costituitisi all’inizio degli anni Sessanta con la nascita dell’Olp, oramai senescenti così come i loro leader; il terzo è la perdurante crisi economica che attanaglia Gaza, facendo sì che i suoi tassi di sviluppo siano costantemente compressi da una evoluzione demografica e una crescita urbana troppo veloci, ovvero convulse. D’altro canto, sessanta e più anni di separazione tra Gaza e la Cisgiordania hanno consegnato l’evoluzione delle due società a dinamiche diverse. Mentre la popolazione palestinese della Giudea, della Samaria e della Galilea ha conosciuto un adeguamento agli standard medio-alti di alcune delle società locali, a partire da quella giordana, diversa è stata la difficile traiettoria di Gaza. Anche da ciò deriva quindi l’incapacità (se non l’impossibilità) di parlarsi. Plausibile quindi il ragionare di due entità palestinesi, poiché il conflitto, oggi, attraversa la locale comunità araba non meno di quanto la ricomponga quando essa deve contrapporsi ad Israele. Sempre su Gaza e Hamas segnaliamo anche le riflessioni di Luigi Manconi, pubblicate da l’Unità. In conclusione un rimando a quanto scrive Annalena Di Giovanni su Terra quando ci informa che a Beirut è stato varato, dopo mesi di estenuanti trattative, il nuovo governo, presieduto da Saad Hariri, che assomma la bellezza di una trentina di ministri. Quando uno dice Italia e non s’avvede di cosa sia il Mediterraneo...
Claudio Vercelli, http://www.moked.it/

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