sabato 28 novembre 2009



“Fede ebraica nei campi di sterminio”. Rav Di Segni incontra gli studenti all’Università di Tor Vergata

Il ciclo di incontri di riflessione in vista del Giorno della Memoria è stato inaugurato martedì 24 novembre dal rav Riccardo Shmuel Di Segni, rabbino Capo della Comunità Ebraica di Roma, con una vera e propria “lezione magistrale” incentrata sul tema della “Fede ebraica nei campi di sterminio”, tenutasi nell’aula Moscati della facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Tor Vergata, alla presenza quasi duecento studenti. Rav Di Segni ha riassunto alcune idee fondamentali del rapporto fra religione ebraica e Shoà. Prima di tutto, ha fornito una chiarificazione proprio sul termine “Shoà”. Diffusosi fra gli anni ‘50 e ‘60 del secolo scorso, questo termine è stato preferito rispetto a quello di “Olocausto” che risalire al greco “olo” (interamente) e “causto” (bruciato). Nell’antichità, infatti, l’Olocausto era un tipo particolare di sacrificio durante il quale l’animale prescelto veniva interamente bruciato sull’altare nell’ambito di un rituale religioso. In quest’ottica, parlando di Olocausto, quanto accaduto tra il 1938 e il 1945 con la deportazione degli ebrei potrebbe alludere ad un rito terribile nel quale i forni e le camere a gas simboleggiano altari sacrificali. La soluzione offerta dall’uso del termine “Shoà” evita di entrare nell’ambito di questioni alquanto controverse, evocando l’immagine biblica di un turbine che travolge tutto. Tuttavia, a parte le precisazioni etimologiche, non si elude il problema teologico che ripercorre le domande fondamentali che l’uomo si è posto dinnanzi a momenti tragici della storia: prima, fra tutte le domande, quella sulla presenza divina di fronte a questi eventi negativi. In queste situazioni una risposta formulata è che Dio si nasconda, continuando tuttavia ad agire sotto forma di provvidenza individuale. Parlare di abbandono di Dio è un modo parziale di affrontare la questione. Il libero arbitrio, la libertà dell’uomo di decidere sulla propria condotta, rappresenta in un certo senso il limite all’onnipotenza e alla responsabilità divina. Se esiste la possibilità umana di scegliere tra il bene e il male, allora, di conseguenza, sono possibili sia il bene che il male provocati dall’uomo. In seguito alla Shoà ci si è posti il problema di come affrontare l’avvenimento, come reagire di fronte a una simile tragedia. Si tratta di un problema ancora oggi “congelato”. Il calendario liturgico ebraico è ricco di ricorrenze che si richiamano a episodi biblici non recenti. In queste occasioni si fa festa o si fa digiuno; in ogni caso la partecipazione emotiva è la stessa anche se sono passati secoli dall’evento che si intende ricordare. Per quanto riguarda la Shoà si è trattato di decidere se istituire un digiuno che avrebbe coinvolto l’intero popolo ebraico. Molte autorità rabbiniche hanno obiettato a questa soluzione e mentre si discuteva se recuperare un digiuno minore come anniversario anche delle vittime della Shoà, il Parlamento israeliano istituiva il “Giorno della Shoà e della Ghevurà” che cade circa due settimane dopo l’inizio di Pasqua. Questa data evoca la Rivolta del ghetto di Varsavia contro i nazisti nel 1943: evento-simbolo di una nuova forma eroica di Resistenza. Quasi in opposizione all’immagine del “gregge portato al macello”, la rivolta ebraica del ghetto di Varsavia è esemplare di chi lotta attivamente contro l’oppressore. Lo stesso Stato di Israele nasce dalle persone che hanno voluto rifiutare una tradizione di passività: un’autentica “rivoluzione concettuale”. Ma come hanno reagito gli ebrei, da un punto di vista religioso, alla Shoà? Il Rabbino Di Segni sottolinea come vi fossero coinvolti ebrei con una identificazione religiosa diversificata. Alcuni, alla luce del dramma collettivo, hanno smesso di essere ebrei praticanti, altri hanno continuato ad essere tali. Altri ebrei, non praticanti, hanno riflettuto sulle contraddizioni teologiche della deportazione e hanno rafforzato la loro laicità. Infine, altri da laici sono tornati a esser religiosi. L’intervento del rav prosegue citando Primo Levi, ebreo laico di Torino che ha solo un blando rapporto con la Tradizione. Nonostante ciò, la sua testimonianza sulla deportazione ad Auschwitz, custodita in “Se questo è un uomo”, è densa di risvolti interpretativi interessanti. Al riguardo basta prendere in esame le parole della “poesia” che apre “Se questo è un uomo”, parole che si richiamano, parafrasandole, al testo dello “Shemà Israel” “Ascolta Israele”. Allo stesso contesto Levi aggiunge una strana “maledizione” che rientra perfettamente nella logica biblica: basti considerare i salmi terribili nei quali alla fine della descrizione dell’esilio è presente l’invettiva contro il nemico. È qui evidente quanto la persona apparentemente più laica, trasformi una preghiera importante dell’ebraismo in un monito laico universale. D’altra parte ci sono infiniti esempi di storie simili. Come quella, lacerante, sul problema della fede durante la Shoà, di un padre che potrebbe riscattare il figlio selezionato per le camere a gas nei lager nazisti, ma salvare suo figlio avrebbe comportato ugualmente la morte di un’altra persona a caso. Il padre si rivolge, quindi, a un rabbino, con lui internato, la cui risposta è quella del silenzio. Il padre ha comunque dedotto che se il rabbino restava in silenzio voleva dire che quello che intendeva fare per il figlio era proibito. Rinuncia dunque a riscattare il figlio, richiamandosi ad Abramo, pronto a sacrificare Isacco per volontà divina. Questo è indicativo di quanto in situazioni dure, molti ebrei abbiano cercato l’appoggio nella Tradizione, anche per attingere ad una possibile spiegazione di quanto accaduto. Parlando, poi, di storie di Resistenza durante la Shoà, ci si imbatte sul concetto di ”santo” e “santificazione”. Nel comportamento religioso ebraico, ciascuno è tenuto, soprattutto nella società, a rappresentare un corretto modello per tutti. Ogni persona è tenuta a dare il buon esempio. Pertanto, se uno si comporta in maniera scorretta commette una “profanazione del nome di Dio”, diffamando il patrimonio spirituale che ha ereditato dai padri e il nome di Dio stesso. Al polo positivo vi è l’idea della “santificazione del nome di Dio”, idea che è possibile realizzare in tanti modi. L’onesto comportamento quotidiano è di per sé una “santificazione”, ma questo concetto esiste al massimo grado nell’idea del martirio. La tradizione comunque dice che, tra la vita e la trasgressione, la vita è più importante, ma, di fronte a singole trasgressioni di particolare gravità indicate dai Maestri, è preferibile la morte. Così, nei momenti di persecuzione, la Resistenza e il non accettare compromessi sono ritenuti una forma di santificazione del nome di Dio. Ma, alla luce di ciò, chi è “santo”? Da un certo punto di vista, “santo” potrebbe essere colui che accetta volontariamente di immedesimarsi in questo contesto avverso e, di fronte alla prova finale, compie una scelta cosciente e positiva. Ma dall’altra parte, si afferma che tutte le persone destinate ai campi di sterminio sono state scelte in quanto ebree, quale che sia stato il loro reale atteggiamento religioso, e pertanto devono essere considerati tutti dei santi.È chiaro quanto ricco di spunti di riflessione sia stato l’incontro con rav Di Segni che ha proprio catturato l’attenzione dei presenti. L’incontro è stato promosso dalla Facoltà di Lettere e Filosofia - e da molti Corsi di questa Facoltà - dal Centro Romano di Studi sull’Ebraismo (CeRSE), - ed è stato presentato e curato da Myriam Silvera (Storia e cultura degli ebrei in età moderna).
Maria Rita Salustri, http://www.moked.it/

Nessun commento: