King Abdullah (fore CL) and his party standing in front of the Dome of the Rock. Jerusalem, Israel.1948
lunedì 23 novembre 2009
King Abdullah (fore CL) and his party standing in front of the Dome of the Rock. Jerusalem, Israel.1948
Stranieri eravate in terra d’Egitto Ebraismo e attualità
Migranti, stranieri, “diversi”. E l’intolleranza che si diffonde. Ma cosa dice il pensiero ebraico in proposito? Parla Haim Baharier, maestro di Torà, biblista, consigliere di capitani d’impresa Il numero degli immigrati in Italia è cresciuto esponenzialmente negli ultimi anni. Secondo gli ultimi dati Istat disponibili, risalenti al febbraio 2008, gli stranieri regolari sarebbero più di tre milioni oggi in Italia mentre gli irregolari si aggirerebbero intorno al milione; con una crescita annua valutata intorno al 21%, secondo il Dossier Caritas del 2007 sull’immigrazione. Il nostro Paese non era preparato a questa novità e ha provato a mettere ordine sia a livello politico che legislativo. Al di là dei problemi di ordine pubblico o dei fatti di cronaca, assistiamo tuttavia ad un diffuso sentimento di rifiuto verso lo straniero, a volte persino di repulsione, sia al livello della gente comune che istituzionale. Se da un lato osserviamo l’esplodere dell’intemperanza, di forme di razzismo individuale che sfocia a volte in episodi xenofobi o atteggiamenti di esclusione, ci sono anche gruppi la cui violenza è ufficialmente giustificata perché contrabbandata da difesa della sicurezza pubblica. Omofobia, aggressioni, ronde, pestaggi: la sensazione è che sempre di più si stiano diffondendo fenomeni di intolleranza. Legittimati però, stavolta, da un clima politico e sociale radicalmente mutato. Un imbarbarimento generale in cui sembrano aver sempre meno valore i principi etici, quelli di rispetto dell’individuo e del prossimo, inteso appunto anche come straniero. Ma a questo proposito che cosa dice il pensiero ebraico? Qual è l’approccio della tradizione d’Israel alla condizione dell’essere straniero, proprio noi che fummo schiavi in terra d’Egitto, esuli e immigrati di tutte le epoche e in tutti i Paesi? Risponde Haim Baharier, maestro di ermeneutica biblica e pensiero ebraico, da sempre molto sensibile alla questione della diversità, della condizione di estraneità e dell’essere straniero.“Il problema dell’accoglienza è spinoso per gli ebrei. Il primo testo che menziona l’argomento dice: “Ama il prossimo tuo come te stesso” (Levitico 19,18), dove ci si azzarda ad interpretare prossimo tuo come straniero. Questa interpretazione è però erronea poiché più avanti si parla di “gher”, e in questo caso sì che la traduzione letterale è quella di straniero. In Shemot, capitolo 33 v.11, è scritto “Adonai parla a Moshé, volto a volto, come un uomo al suo prossimo vicino”. Nella profondità di questo verso è custodito un principio etico: per avere un rapporto autentico e sincero con il trascendente bisgona avere un rapporto autentico e sincero con il prossimo. Ma ancora, non è affatto chiaro che si stia parlando dello straniero. Il fatto è che nella Torà l’amore verso il prossimo non è una cosa così scontata, tant’è che differenti sono i racconti in cui fra ebrei, perfino tra fratelli, non vi è un amore vero e profondo: si ricordino Ismaele ed Isacco, Giacobbe ed Esaù. “Amerai il prossimo tuo come te stesso”, si diceva: il suo significato è comprensibile a tutti e come tale è ripreso da alcune grandi religioni. Ma la tradizione ebraica tende a diffidare delle evidenze. Teme ciò che appare troppo in fretta compreso e condiviso da tutti. Di più, lo bolla come idolo, presunzione di farsi simili a Dio, di spacciarsi per suoi soci. L’uomo non è forse stato creato per ultimo, dice il Talmud (TB, Sanhedrìn, 38a) proprio per stroncare sul nascere questa sua tentazione di farsi dio?, la fascinosa illusione della creatura di ergersi a origine di se stessa, quella che i greci chiameranno ubris e che ciascuno di noi, una volta almeno nella vita, ha sentito pulsare nel suo animo e nei suoi nervi? E dunque anche quell’“Amerai il prossimo tuo come te stesso” va compreso oltre la lettera, va aperto all’esame di tutte le sue molteplici implicazioni. Perché lì, in quelle parole, non sta tanto l’appello alla bontà, ma il nodo, ben più intricato, della responsabilità. Noi, esseri limitati, siamo illimitatamente responsabili per il nostro prossimo. Qual è allora la condizione necessaria per l’amore degli altri, ivi compresi i diversi e gli stranieri?Da questo punto di vista l’ebraismo è molto innovativo. Dal momento che è pieno di gente che non ama se stessa, come si fa in tal caso ad amare l’altro? Quel come te stesso è quindi l’espressione della reciprocità. Possiamo amare il prossimo solo se il prossimo ama noi. Ma c’è anche qualcosa di più: siamo addirittura responsabili dell’amore del prossimo verso di noi: ovvero abbiamo il dovere di suscitare questo amore. Solo allora anche noi dovremo amare l’altro e ci verrà spontaneo farlo. Lo stesso Rabbi Akiva riconosceva questo come uno dei più grandi principi mediati dalla Torà. E se non c’è questa reciprocità? Nel Talmud troviamo tradotto questo stesso principio con altre parole: “ciò che non vuoi ti sia fatto, non farlo al tuo prossimo”. Ma in questa frase è racchiusa l’idea che ci porta ad assumere un’altra grande responsabilità: se questa reciprocità non c’è noi abbiamo il dovere di difenderci da colui che ci odia e di privarlo della possibilità di fare del male. Ciò giustifica la legittima difesa. Ma torniamo al versetto da cui siamo partiti. E prendiamola alla larga, come siamo abituati a fare noi ebrei, noi che ci abbiamo messo quarant’anni ad attraversare un deserto percorso all’epoca da qualunque carovana in meno di 15 giorni. Narra il Talmud che un goy si recò un giorno dal maestro Shamai e disse: “Se mi insegni tutta la Torà mentre sto in piedi su una sola gamba, mi convertirò”, (TB, Shabbàt, 31a). Shamai furioso lo cacciò. Il goy andò allora dal maestro Hillel, che aveva fama di pazienza infinita. Hillel gli rispose: “Non fare agli altri ciò che non vuoi sia fatto a te. Il resto è commento. Va’ e studia”. Così le traduzioni correnti. Ma De‘alekh sani, lehavrékh la ta‘àvid, come suona in aramaico la risposta di Hillel, significa letteralmente “colui che ti è nemico, non lo far passare per tuo amico”. Nel decidere chi è amico e chi nemico, ciascuno di noi si assume la terrificante responsabilità delle conseguenze della sua azione, o di ciò che discenderà dalla sua mancata azione. Questo ci dice Hillel. Qui è il nocciolo dell’amore come della responsabilità. E allora “Amerai il prossimo tuo come te stesso“, in ebraico Veahavtà le-reakhà kamòkha, significa più esattamente “Amerai per il prossimo tuo ciò che ami per te”. Non un generico appello all’amore per l’altro, cosa che nessuno ti può ordinare. No. Piuttosto il vincolo ad assumere su di te la responsabilità di agire per gli altri come agiresti per te stesso. A cominciare dalla legittima difesa, che sei tenuto a estendere agli inermi, e a chi non può difendersi da solo. Accollandosi, quando le circostanze lo impongono, anche quella parte di ingiustizia necessaria e inevitabile all’espletamento della giustizia stessa. Il Talmud poi non ci dice se il gentile si convertì o no, poco importa: non di convertiti c’è bisogno, ma di persone che assumano la responsabilità implicita nella pienezza di una vita eticamente vissuta. “Come un vostro concittadino sarà per voi lo straniero che risiede con voi e lo amerai come te stesso perché stranieri eravate in terra d’Egitto…”. Levitico, 19, 34. Come per tutti i valori, anche la responsabilità è assoluta, illimitata: si costituisce a limite e nello stesso tempo a verifica della tolleranza.Dove allora nei testi si fa esplicita menzione dello straniero, del non ebreo?Nei Tehillim, i Salmi, Re David dice che gli stranieri si riconoscono tra di loro. Allora il Signore dice all’uomo “Accoglili: come tu sei straniero anche io sono straniero”. Ciò mi ricorda un episodio che mi è capitato: per anni ho avuto come vicino di pianerottolo una persona con cui, per tutto il tempo in cui ho abitato in quella casa, non ho mai scambiato una parola. Anni dopo ho incontrato questa stessa persona a New York, alloggiavamo nello stesso albergo, e abbiamo stretto un’amicizia fraterna, cosa che nella mia città non sarebbe mai accaduta. Ecco, quando si è entrambi nella condizione di estraneità, questo è proprio ciò che può accadere. Invece la questione dell’accoglienza è diversa, non può essere incondizionata. Ci sono casi in cui l’accoglienza non porta a qualcosa di positivo sia per colui che accoglie sia per lo straniero accolto. Prendiamo l’ebreo. Per secoli si è sentito in tutto il mondo come a casa sua, e per secoli ha cercato di fare il bene della nazione in cui si trovava migliorandone le leggi e svolgendo professioni importanti per tutta la comunità civile. Ciò non ne ha impedito comunque la discriminazione, l’allontanamento, l’espulsione. Cosa che ha radicato nel popolo ebraico un sentimento di costante estraneità. Diversi, la voce del Bené Berith.La globalizzazione è una delle più grandi trasformazioni nella storia dell’umanità. L’uomo è costretto a misurarsi con una realtà molto più vasta e questo è percepito come una minaccia alla propria identità e alla sicurezza personale. Ed è il desiderio di sicurezza che provoca ostilità nei confronti del diverso e dello straniero. Come popolo ebraico, dispersi in tutto il mondo per più di 2000 anni siamo il primo popolo globale del pianeta e abbiamo sperimentato sulla nostra pelle, ahimè con conseguenze tragiche, la condizione di essere diversi in un mondo ostile. Per la nostra tradizione, la condizione di straniero è un elemento fondante e centrale dell’identità.Dopo la liberazione dalla schiavitù in Egitto, quando Israele si appresta a diventare un popolo e a conquistare la terra promessa, è chiamato a far memoria del suo essere stato straniero. Leggiamo in Esodo 23,9: “Non opprimere il forestiero, perché voi già conoscete lo stato d’animo del forestiero, essendo stati voi stessi forestieri in Egitto”. Ve-atem yadatem et nefesh ha-ger. Questo passo ci parla della nefesh, dello stato d’animo dello straniero e usa il verbo yada che significa la conoscenza intima. Quando incontriamo colui che si trova in condizione di disagio perché “diverso” la Torà ci chiede di conoscere il suo animo, di entrare nella sua pelle, di vedere il suo dolore e di capire le sue necessità non solo materiali, ma anche il suo bisogno di accoglienza. Ci chiede di conservare la memoria di quando siamo stati anche noi stranieri, ci chiede di assumerci la responsabilità di questa memoria e comportarci con compassione. Nella nostra tradizione lo straniero è spesso associato al povero, non solo chi viene da un altro paese, ma chiunque sia in condizioni di necessità. La solidarietà, l’aiuto al bisognoso, la difesa dell’oppresso e in generale dei diritti umani, sono dei valori cardine dell’associazione Bené Berith, che quest’anno ha deciso di dedicare le sue attività sociali e culturali al tema della diversità. Il programma di attività verrà sviluppato con altre Associazioni (il CDEC, il CEJI-Centre Européen Juif D’information), L’Onlus “Oltre Il Ponte” e LICRA (Ligue Internationale Contre le Racisme et Antisémitisme) e oltre a organizzare interventi e tavole rotonde sul tema, rivolgerà particolare attenzione ai giovani e alla loro educazione circa il valore della diversità. Il Bené Berith proporrà nei prossimi mesi un concorso tematico a premi, aperto a tutti i ragazzi di età liceale della Comunità Ebraica di Milano. ( Joseph Bali) Caccia al Rom.Everyone Group è un’associazione apolitica che combatte per i Diritti Umani, contro la discriminazione e la persecuzione delle minoranze. Ultimamente si è occupata di immigrazione e in particolare della situazione dei Rom in Italia. Roberto Malini, uno dei fondatori, organizza regolarmente proteste di natura gandhiana, per bloccare l’esagerata violenza di azioni condotte dalla nostra polizia nei campi Rom. “Il problema – dice Malini – è che la violenza è ormai legittimata istituzionalmente. Ho assistito in prima persona a veri e propri pestaggi verso uomini, donne e bambini. Mai scorderò l’accanimento della polizia due anni fa durante lo sgombero del campo di Pesaro. Nella maggior parte dei casi la stampa tace, così come tace sulle condizioni disumane in cui vivono queste persone”. Secondo Malini c’è grande affinità fra quella che è oggi la condizione dei Rom in Italia e quella degli ebrei nel periodo nazi-fascista. Non a caso, in molte azioni in difesa dei Rom hanno preso parte anche sopravvissuti alla Shoah, come Nedo Fiano e Piero Terracina. “Non deve più succedere – aggiunge Malini – che un bambino mi dica che è stato escluso dalla partita di calcio per le sue origini Rom”. Cosa che a noi ebrei purtroppo non suonerà così lontana. Perché la verità è che la legge non li considera in quanto cittadini e da immigrati li rende criminali. Debora Peters , http://www.mosaico-cem.it/
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