venerdì 6 novembre 2009



Rough cut - La morale sessuofobica del regime iraniano


Si chiama “Rough cut” (taglio brutale) ed è uno dei cortometraggi più significativi ed efficaci realizzati sulla società iraniana. Prodotto dalla giovane documentarista Firouzeh Khosrovani nel 2007, è stato recentemente riproposto al pubblico italiano a Ferrara, in occasione del Festival di “Internazionale”, rivista che ha sempre avuto un occhio attento sulle vicende del Paese mediorientale. “Rough Cut” è una testimonianza molto intensa sulla difficile condizione delle donne iraniane e sulla morale sessuofobica imposta dal regime teocratico di Teheran. Molti registi si sono occupati dell’argomento in passato ma Firouzeh (nell'immagine sopra) lo ha fatto da un punto di vista insolito, attraverso il racconto delle varie mutilazioni subite dai manichini femminili (e recentemente anche da quelli maschili) nelle vetrine delle boutique della capitale. “Si è incominciato rimuovendo i seni, poi è toccato agli arti, superiori ed inferiori, fino ad arrivare a tagliare, in alcuni casi, anche la testa”. Una guerra con i manichini che è iniziata da lungo tempo. Basti pensare che fino a non molto tempo fa i negozianti erano costretti a comprarli all’estero, perché non esisteva nessuna azienda iraniana che li fabbricasse. Questi manichini avevano però un grande “difetto”, forme e curve accentuatamente femminili. Uno scandalo. Così, il regime aveva imposto per legge una nuova figura professionale: “il mozzatore di impurità”. Costui armato di sega elettrica o coltello, aveva il compito di trasformare “provocanti” donne di plastica in fantasmi amorfi. Ed è proprio su questo gesto che Firouzeh insiste molto, proponendo più volte immagini di mozzatori al lavoro. Un modo simbolico per ricordare come quella irrazionale brutalità nei confronti di un oggetto inanimato sia sostanzialmente la stessa violenza che viene perpetrata quotidianamente nei confronti di persone in carne ed ossa. Adesso questo lavoro non esiste più, non perché sia stata messa la parola fine a queste assurde mutilazioni, ma più semplicemente perché nel Paese sono nate aziende che fabbricano manichini privi di seno, e dunque “puri”. Una “guerra al vizio e alla dissolutezza” che ogni giorno si intensifica sempre di più. Alla luce di questo assurda campagna proibizionista che sta attraversando il Paese, assumono ancora più valore le coraggiose testimonianze di alcuni commercianti di Teheran, che in “Rough cut” denunciano l’ondata moralizzatrice che li sta travolgendo. È importante sottolineare come le immagini risalgono a due anni fa, pertanto è lecito pensare che nel frattempo la situazione possa essere soltanto peggiorata. Il documentario, partendo dalla “questione manichini”, affronta un tema molto interessante, quello della complessità della società iraniana, che da una parte subisce l’influenza consumistica dell’Occidente, dall’altra scandisce le proprie giornate attraverso i dettami del Corano. La religiosità profonda, infatti, pur esasperata da trenta anni di governi teocratici e integralisti, è un sentimento che appartiene a una larga parte della popolazione, indipendentemente dall’orientamento in tal senso dei vari governi (o regimi) succedutisi al potere. Ed è proprio per questo motivo, racconta Firouzeh, che la grande battaglia di laicizzazione forzata del Paese messa in atto da Reza Pahlevi non ha funzionato. Battaglia che vedeva nell’abolizione forzata del jihab, il velo, uno degli obiettivi principali da raggiungere. Un’imposizione che molte donne iraniane (per non parlare dei rispettivi mariti) non avevano accettato di buon grado, vedendola come una minaccia alla secolare tradizione delle loro progenitrici. “Mi vesti e svesti a tuo piacimento”, recita una poesia in farsi, che racconta una grande verità: scià o ayatollah, monarchia o teocrazia, le donne iraniane non hanno mai avuto voce in capitolo riguardo al loro abbigliamento. Capelli sciolti al sole oppure velo, a decidere sono sempre stati gli uomini.Adam Smulevich http://www.moked.it/

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