sabato 7 novembre 2009

Saul Bellow

Rassegna stampa

Giornata ricca di notiziole, ovvero di fatti che non si prestano alla prima pagina dei giornali ma che ci permettono di affrontare una pluralità di questioni, adottando l’angolo visuale che ci è offerto dai singoli eventi. Partiamo da qualcosa di apparentemente secondario ma che, nella sua non occasionalità, è un po’ come quel filo ribelle che fuoriesce dal tessuto, rivelandone la trama soggiacente. Ci riferiamo al veto pronunciato in veste ufficiale, attraverso Al Manar, la televisione di Hezbollah, alla pubblicazione e alla diffusione del Diario di Anna Frank in Libano. Per inciso, affinché l’informazione sia completa, va detto che il libro già da tempo è reperibile a Beirut, così come nelle librerie delle grandi città del paese, sia in lingua inglese che in una prima, meno accurata versione in arabo. Ragion per cui il tardo pronunciamento, avverso alla sua riedizione, non collima con una effettiva capacità di impedirne la distribuzione. Piuttosto si tratta di un messaggio, il cui contenuto va decodificato, che Hezbollah invia ai suoi interlocutori mediterranei, ai suoi sostenitori così come alla collettività libanese. Ne parlano quindi alcuni quotidiani, per la penna di Anna Mazzone su il Riformista, Alessandro Carlini su Libero e Francesco Battistini per il Corriere della Sera. Altri, invece tacciono. L’evento, nella sua singolarità, non è neanche poi così eclatante, inserendosi, piuttosto, in un percorso di continuità che dovrebbero rivelare - anche ai più “disattenti” - la vera natura dei pensieri del gruppo estremista, non meno della subcultura di riferimento, che dice di alimentarsi dell’antisionismo quando invece è anche organicamente antiebraica. Peraltro, come ben sappiamo, i due risentimenti sono speculari. Non è la prima volta che il movimento sciita - il quale, ricordiamo, occupa nutriti scranni parlamentari ed è forza di governo nelle coalizioni di governo di quel paese - si esprime con un secco diniego all’ipotesi di offrire nelle librerie il testo conosciuto in quasi tutto il mondo poiché tradotto in 55 lingue e venduto in 25 milioni di copie. Peraltro, il pronunciamento avverso fa seguito alla nuova traduzione in arabo e in farsi (la lingua persiana), nella speranza che un volume che raccoglie le riflessioni, in chiave quasi del tutto intimista, di una ragazzina costretta a nascondersi da un mondo di adulti ostili e brutali, possa incontrare i favori dei lettori dei paesi nei quali si usano quelle lingue. Hezbollah, per voce di un membro del «Comitato per il boicottaggio dei beni sionisti in Libano», ha affermato che la diffusione del libro costituirebbe una «flagrante violazione e una mossa per permettere la normalizzazione» con Israele. Interessante affermazione poiché si ammanta di una falsa plausibilità, destinata comunque a trovare orecchie attente e menti proclivi anche in Europa, dove i segni incipienti, sia pure sotto traccia, di una rancorosa ostilità verso le testimonianze ebraiche non vanno ascritti solo al campo del neonazismo e del negazionismo. Non a caso è proprio il volume della giovanissima olandese ad avere subito in questi ultimi decenni gli strali più polemici, anche in altri contesti. Di esso, dichiarato come falso dagli avversatori di sempre, non si accetta evidentemente la nota di umanità che accompagna un po’ tutte le pagine. Peraltro, non è un libro sulla Shoah, non almeno stricto sensu, bensì un vero e proprio diario dello spirito e di un corpo obbligati a celarsi, in una età, invece, in cui il bisogno di mettersi in relazione con gli altri si fa particolarmente pronunciato. Già Bruno Bettelheim ci ammoniva riguardo al «buon uso» del testo, che non parla dei luoghi di sterminio (ed impropriamente è riferito ad essi dalla pubblicistica di larga diffusione), bensì di un’anima prigioniera. La scena, come ben ricorderanno i lettori, è una sola, l’alloggio segreto ad Amsterdam, rifugio precario per una famiglia che rischiava di essere travolta dall’occupazione nazista, come poi purtroppo avvenne per via di una delazione. Risulta quindi ancora più irritante il tentativo di porre la mordacchia alla scrittura della vita che è racchiusa in pagine nelle quali l’angoscia si frammischia alla speranza, il buio alla luce, i colori al grigiore, l’essere ancora un po’ bambina alla scoperta di divenire donna. E risulta non meno offensiva l’accusa, in sé una deliberata e paradossale menzogna, di falsificazione. Secondo questa squallida vulgata il Diario costituirebbe il risultato di una operazione fatta a tavolino, dagli “eterni ebrei”, volta a offrire al pubblico mondiale un testo lacrimoso e seducente, per avvantaggiarsene sul piano della credibilità morale. Un capitolo, insomma, del complotto giudaico. A chi non sono note le logiche negazioniste, alle quali l’Iran di Ahmadinejad e Hezbollah si rifanno a pieno titolo, può sembrare oltremodo curioso lo scagliarsi contro un libro così che, in fondo, pressoché nulla ci dice di quello che all’autrice e alla sua famiglia successe dopo la cattura. Ma è proprio questo il punto su cui i negazionisti di ogni risma battono il chiodo: devitalizzare l’immagine degli ebrei, relegandoli alla condizione di umanoidi, dopo averne derubricate le qualità di esseri umani, per dimostrare che il complotto c’è perché è voluto e portato avanti da individui eticamente (e anche fisicamente) ripugnanti. Aggiungiamo, in questo caso non per amore di polemica ma senz’altro per gusto critico, che Beirut è la capitale mondiale del libro, carica attribuitagli dall’ineffabile Unesco, per tutto l’anno corrente. In Libano non hanno libera circolazione molte opere di autori di origine ebraica o che si rifanno a temi di giudaica: per citare alcuni nomi sono interdetti al pubblico Philip Roth, Saul Bellow, Isaac Bashevis Singer ma anche il Thomas Friedman di «Da Beirut a Gerusalemme» e il William Styron de «La scelta di Sophie». Altro tema, diverso scenario. Qui, invece, buona parte dei giornali si sbizzarriscono nel commentare la dichiarazione di Abu Mazen (una promessa o una minaccia?), a capo dell’Autorità nazionale palestinese che, in prossimità delle future elezioni presidenziali, convocate insieme a quelle legislative per il 24 gennaio del 2010, afferma di non avere intenzione di ricandidarsi. Ne parlano, tra gli altri, Francesco Battistini su il Corriere della Sera, Barbara Uglietti su Avvenire, Carlo Panella per il Foglio, Aldo Baquis su la Stampa, Roberto Bongiorni su il Sole 24 Ore, ma anche Alberto Stabile su la Repubblica così come il Tempo e il Messaggero. In realtà non è chiara quale sia l’effettiva volontà del rais di Ramallah. L’analisi del momento che ha fatto, parlando alla televisione palestinese nella serata di ieri, è stata impietosa, avendo ad obiettivo polemico quelle che ha definito come le condizioni che renderebbero impossibile il prosieguo del suo lavoro, a partire dal sentimento di «grande frustrazione» per la posizione degli Stati Uniti riguardo al processo di pace in Medio Oriente. In realtà, per meglio inquadrare l’evento, al di là della sua singolarità, va tenuto in considerazione che le amministrazioni politiche e gli organismi di mobilitazione e militanza palestinesi, tanto più l’Olp e l’Anp, adottano da sempre una liturgia sovietica, dove il ricorso alla minaccia di non prendere più parte al gioco ha significati e obiettivi ben diversi da quelli esplicitati, inviando semmai segnali impliciti e latenti a più destinatari. Abu Mazen, alias Mahmoud Abbas, che sconta una scarsissima popolarità tra i suoi connazionali e che paga il prezzo del mancato accordo tra le organizzazioni islamiste e il Fatah, con la prospettiva che il turno elettorale del gennaio prossimo si trasformi da subito in una parentesi di guerra civile, sa di potere utilizzare una sola carta, quella americana. In altre parole ancora, identificato a suo tempo come il “moderato” della situazione, l’uomo che secondo Washington si sarebbe dovuto contrapporre al debordante Yasser Arafat, è oggi tra i pochi che possano ancora sperare di risultare sufficientemente credibili nella qualità di interlocutori dell’Occidente. Ma, come si diceva, gli difetta il seguito interno, quello che dovrebbe raccogliere tra i palestinesi. Non di meno sa che la sua figura è minacciata su più piani dal crescente appeal di Salam Fayyed, il primo ministro dell’Autorità nazionale palestinese che, svincolatosi dalle diatribe interne ai gruppi politici, sta conquistando sul campo la fama di leader pragmatico e tecnocratico. Abu Mazen, ultrasettantenne, appartiene poi alla gerontocrazia locale, quella che è cresciuta all’ombra del defunto Arafat, ne ha condiviso un po’ tutte le scelte tra le quali quella di tornare nei Territori a metà degli anni Novanta. La dottrina ufficiale dell’Olp era un decennio fa quella dei due stati per due popoli. Adesso, come sottolinea un pepato Angelo Pezzana su Libero, l’indirizzo è silenziosamente mutato, essendo stata rilanciata l’ipotesi di uno stato binazionale, che dovrebbe raccogliere entrambe le comunità, quella ebraica e la palestinese, sotto la stessa giurisdizione. Si tratta di una proposta che, giocando anche sulla previsione di alti tassi demografici in campo arabo, punta a svuotare dal di dentro Israele, recuperando, sia pure in una forma un poco più diplomatica, l’obiettivo di distruggere l’«entità sionista», in consonanza con le posizioni di un altrimenti irriducibile Hamas. Peraltro, come sagacemente sottolinea Segre su il Giornale, l’identità nazionale palestinese, in questi frangenti, parrebbe quasi non esistere, manifestandosi unicamente per opposizione a quella israeliana. L’ambiguità della leadership di Ramallah, il fatto che parli due lingue, una più compiacente, rivolta agli uditori dell’ovest e l’altra più militante e radicale, per soddisfare le attese di chi sta ad est e a sud del planisfero politico – quindi - è un elemento il cui riscontro non può più sfuggire a nessuno, men che meno a Barak Obama. Segnaliamo ancora un’analisi di Luigi De Biase, per il Foglio, sugli orizzonti di una Turchia che sempre più spesso parrebbe riposizionarsi verso lidi islamistici o, comunque, avversi ai partner occidentali. Per concludere, infine, si legga la recensione di Gaetano Vallini sull’Osservatore romano dell’interessante volume di Silvia Selvatici su «Senza casa e senza paese. Profughi europei nel secondo dopoguerra». Un tema, quello dell’esilio collettivo, che attraversa la storia del Novecento con particolare forza e violenza.
Claudio Vercelli http://www.moked.it/

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