sabato 28 novembre 2009




Theodor Herzl

Le culture del sionismo

Si è aperta, al Circolo dei lettori di Torino, la due giorni dedicata alle “Culture del sionismo (1890-1945). Prese di posizione, interpretazioni, bilanci”, organizzata dall’Università del Piemonte orientale insieme alla Fondazione Camis De Fonseca e al Goethe Institut. Un convegno importante che restituisce dignità storica a un movimento, troppo spesso svilito da un’opinione distorta, paragonato impropriamente al colonialismo o addirittura al razzismo. “Il sionismo da oltre cento anni è parte integrante della cultura ebraica”, ha sottolineato in apertura Tullio Levi, presidente della Comunità ebraica di Torino, ricordando che la corrente culturale e politica è stata “una grande e coraggiosa esperienza, fondata sull’aspirazione a costruire una patria ebraica indipendente e sovrana”.Il sionismo è, però, un’esperienza varia al suo interno, composita, per questo il convegno si intitola “Culture del sionismo” e si propone di raccontare al pubblico le sue diverse sfaccettature. “Si può dire che ogni israeliano porta avanti una propria idea di sionismo”, sostiene Laura Camis, presidente della Fondazione De Fonseca che aggiunge: “Israele è forse l’unico Paese al mondo in cui tante culture diverse si riconoscono in un solo popolo”.Culture diverse del sionismo si diceva: Lazare, Herzl, Buber, Gerschom Scholem, Dante Lattes e Alfonso Pacifici, nomi, storie, paesi differenti che propongono visioni diverse, rimanendo sempre nella grande culla del sionismo. Significativa la citazione di Marc Bloch da parte di Giulio Schiavoni, ideatore, assieme a Guido Massino, dell’evento, “sionisti e antisionisti per favore diteci cos’è stato il sionismo” che non è, come ha sottolineato lo stesso professore Schiavoni “riducibile alla questione fra israeliani e palestinese”.Ma entriamo nel vivo del convegno. In mattinata i relatori Julius Schoeps, Geroges Bensoussan e Anna Foa hanno dato al pubblico il primo sostanzioso assaggio di come il paradigma sionista si espliciti in diverse forme.Schoeps, docente di Storia ebraica a Berlino, presenta nella sua lezione dal titolo “Se volete, non è una fiaba” un Theodor Herzl a tratti inedito, sognatore e con insospettabili doti di chiaroveggenza, addirittura osannato come il messia. Tutto, o quasi, inizia con l’affaire Dreyfus: Herzl in quel periodo è corrispondente del viennese Neue Freie Presse a Parigi e assiste impietrito all’umiliazione dell’ufficiale francese di origine ebraica, degradato per un presunto tradimento. “Per lui - spiega Schoeps - fu un vero trauma. Quando a Dreyfus viene rotta la bacchetta da ufficiale, qualcosa si spezza anche in Herzl. Questo per lui è il segno che l’assimilazione non è possibile, il mondo esterno non la desidera, non vuole che accada”. Herzl inizia così quello che lui stesso definì “un’opera di dimensione infinita. Un sogno che non so dove mi porterà”. Il sogno lo conosciamo, la creazione di uno Stato ebraico che, sottolinea Schoeps, diventerà Israele, ma non per una espressa volontà di Herzel, per una questione di realismo politico: il padre del sionismo si rende conto che Eretz Israel è l’unica meta che possa essere trasversalmente accettata dagli ebrei migranti.Il congresso di Basilea del 1897 consacra il successo delle idee di Herzel. Gli vengono dedicati interminabili applausi; l’eccitazione del pubblico è forte come la sua fantasia: alcuni vedono nel giornalista e scrittore ungherese il messia e lui, conscio di questa influenza, contribuisce ad incrementare questa leggenda. Non per fini narcisistici ma per poter diffondere i suoi ideali. Di quell’evento Herzel dirà profetico “se riassumo il congresso di Basilea: lì ho fondato lo Judenstaat, ora qualcuno riderà ma tra cinquant’anni tutti capiranno”. La storia insegna che le sue previsioni erano esatte.Schoeps racconta come Herzl sente la necessità di diffondere nel mondo più ampio possibile il suo pensiero. Per questo scrive un romanzo, l’Altneuland (l’antica nuova terra), il racconto di un paese utopico situato nell’allora Palestina, con ferrovie, canali, energia elettrica, un sistema economico mutualistico (a metà fra socialismo e capitalismo). E ancora, un luogo di tolleranza dove vige il motto “uomo tu sei mio fratello”, dove gli arabi sono parte integrante della società, un paese di cui, scrive lo stesso Herzl “tutti fanno parte. Non importa se si prega in una sinagoga, in una chiesa, in una moschea”.La creazione dello Judenstaat era, ricorda il professor Schoeps, nei peggiore dei casi un’utopia e aggiunge “Herzl è stato seppellito nello stato d’Israele. La sua ultima dimora, un semplice blocco di marmo sotto i cedri e i cipressi, non è una banale tomba, ma è un luogo per tutti gli ebrei di grande significato. Se sda quel luogo volgiamo lo sguardo, ci renderemo conto che i sogni possono non restare tali. Israele e la sua crazione sono la prova di ciò”. Se volete, non è una fiaba.Ma cos’è il sionismo? Lo storico francese Bensoussan spiega come il sionismo sia rottura ma anche continuità. Rottura perché si distacca dalla religione, dalla Torah e non potrebbe essere altrimenti essendo un movimento, sostiene Bensoussan “figlio dell’illuminismo, un regalo dell’Europa agli ebrei”. Ma è anche continuità perché “un albero non può crescere senza radici”, nasce nell’alveo dell’ebraismo ma per certi aspetti se ne discosta.Dimostrazione di questa doppia articolazione è l’adozione dell’ebraico come lingua ufficiale del movimento. Un ebraico che si trasforma, si coniuga per le necessità quotidiane, si volgarizza, non è più la lingua della liturgia ma è da essa che deriva. “Il rimpossessarsi della lingua” spiega Bensoussan “è la strada per costruire un’identità solida, permette all’uomo e al cittadino di avere consapevolezza di sé. E da questa consapevolezza si impara a stare saldamente in piedi, a non piegare la schiena”.Il sionismo, soprattutto come movimento culturale, ha insegnato a riaffermare i propri diritti, a riprendere la propria identità. “In Polonia come a Baghdad ci sono testimonianze dell’oppressione nei confronti degli ebrei” racconta lo storico francese che poi cita alcune lettere dei primi del Novecento, provenienti da questi luoghi “quando arrivavano degli ospiti dello Yishuv, facevamo sfilate, cantavamo canzoni, persino il sindaco partecipava. Avevamo la sensazione di essere un popolo, non spazzatura” (1920, Polonia). Da Baghdad il messaggio è simile, con il sionismo “avevamo una scelta. Diventare un uomini che non hanno paura”.Dalla lezione di Bensoussan è ben visibile una rivendicazione che fa riferimento allo stato ebraico e al suo riconoscimento: esisto perché esisto, Israele si legittima da sé, dalla propria esistenza. E’ giusto prenderne coscienza.Uno sguardo diverso lo fornisce la storica Anna Foa che rivolge la sua attenzione sul ruolo della stampa ebraica in Italia fra l’Emancipazione e la seconda guerra mondiale. Con l’emancipazione nasce in Italia, e non solo, una stampa ebraica come risposta al sorgere di alcune problematiche, ma da noi, a differenza che in Germania o in Francia, “non emerge una riflessione pubblica sull’identità e la storia degli ebrei” spiega la Foa che aggiunge “non vi è quella attività culturale intensissima volta a trasformare il mondo ebraico più che a salvaguardarlo. La funzione della stampa italiana sarà piuttosto difensiva, di salvaguardia di una tradizione che l’emancipazione faceva avvertire in pericolo”.La riflessione sull’identità ebraica in Italia avverrà molto più tardi rispetto alla Germania e non si fonderà su un’analisi storica ma si aggancerà al sionismo. Questo comporta un ragionamento diciamo “zoppo”, non contestualizzato “questa riflessione identitaria” sostiene la storica “non è proiettata verso la ricostruzione di uno spessore nel passato –sono ebreo perché ho una storia di ebreo- ma verso il futuro –sono ebreo perché voglio riportare gli ebrei in Eretz Israel. Ebrei nuovi rinnovati, capaci di ricostruire lo Stato attraverso la ricostruzione di se stessi-”. Ma tutto ciò comporta in primo luogo l’esclusione della maggioranza, ovvero coloro che sono ancora diffidenti rispetto al sionismo; in oltre vuol dire dare un taglio netto, forse troppo, alle problematiche nate dall’emancipazione, ponendosi acriticamente contro di essa perché contro l’assimilazione.La mancanza, secondo la professoressa Foa, di una contestualizzazione storica ha portato la stampa ebraica italiana e in generale l’ebraismo italiano a discostarsi dalle altre realtà, in particolare dall’esperienza tedesca. “Il ruolo della stampa ebraica e della sua diffusione è non di cambiare il mondo ebraico ma di difenderlo, salvaguardarlo, mantenerlo nella sua continuità”. Anche per questo l’esperienza sionista italiana presenta delle forti peculiarità rispetto a quella degli altri paesi europei.Daniel Reichel, http://moked.it/

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