mercoledì 16 dicembre 2009
Ma i muri si equivalgono? Ovvero, la loro costruzione e il loro mantenimento, come strumenti di separazione tra gli appartenenti alla medesima «razza», quella umana, assumono lo stesso significato? Non di meno, laddove occorre raccolgono uguale riprovazione? Domande pertinenti per molti di noi, figli di una grande barriera, quel muro di Berlino, costruito dall’allora Germania dell’Est, tra il 1961 e il 1963, e divenuto da subito lo sgradevole simbolo di una Europa - non meno che di una umanità - divisa al suo interno, ossia spaccata come una mela in due parti. Domande che oggi si pone Pierluigi Battista, su il Corriere della sera, in un articolo di commento alla notizia che il governo egiziano starebbe costruendo una opera in grado di isolare il poroso confine meridionale della Striscia di Gaza, impedendo ai suoi abitanti di proseguire nelle attività, perlopiù illecite, di transito e commercio con il territorio cairota. Altri muri hanno preceduto e seguito quello berlinese; sarebbe ancor meglio dire che altri muri sono sopravvissuti al felice abbattimento di quello tedesco, nel novembre del 1989, allegramente divelto e sbriciolato dalla gioia popolare in una memorabile notte, quella del 9 novembre. In genere, però, a fare più male, sono i muri dei quali non si parla, come ad esempio, la dead line che separa il Messico dagli Stati Uniti, dove centinaia di persone perdono la vita tutti gli anni nel tentativo disperato di superarla. Si è parlato a lungo, invece, del «muro», ovverosia della barriera di separazione, che corre tra Israele e una corposa parte del confine cisgiordano. Costruita in questi ultimi anni come strumento di protezione dopo una lunga ondata, l’ennesima, di attentati suicidi a firma dell’irriducibile radicalismo islamico, la barriera, che corre per centinaia di chilometri, anche se buona parte d’essa non è un’opera in muratura ma un sistema di sicurezza elettronico, ha raccolto non infrequentemente la riprovazione di una parte degli osservatori internazionali. Non pochi, ed anche qui con un malcelato disappunto, hanno colto il fatto che dietro questa costruzione poteva disegnarsi quanto meno l’idea di un futuro confine tra Israele e i Territori dell’autonomia palestinese. E, in tutta probabilità, se ciò non è ancora per davvero avvenuto non è perché così non fosse nelle intenzioni iniziali ma, piuttosto, a causa dello stallo che qualsiasi ipotesi negoziale ha conosciuto in questi ultimi anni. A volere accreditare il pensiero di Ariel Sharon, quando diede inizio al progetto, in fondo si trattava di prefigurare, insieme al ritiro da Gaza, un assetto territoriale compatibile con i futuri equilibri regionali, mandando inoltre un inequivocabile e indiscutibile segnale a tutti, ovvero che Israele avrebbe saputo come fermare l’ondata di violenze ai suoi danni, garantendosi con un segno di tangibile sicurezza i suoi confini verso l’esterno, con i vicini, ma anche - nel contempo - dall’interno, contro le costanti intrusioni degli attentatori. La barriera di protezione c’è ancora, insomma, anche se il suo ideatore non è più in grado di difenderne le ragioni. Come si comporterà, ora, la comunità internazionale, nei confronti di quanto l’Egitto intende erigere? Una sua accurata descrizione ci è offerta da Francesco Battistini per il Corriere della Sera, e, soprattutto, da Alberto Stabile su Repubblica. Si dice - poiché conferme non ce ne sono ancora - che già da una ventina di giorni gli egiziani stiano provvedendo alla sua completa edificazione, per la quale già quattro chilometri risulterebbero così completati. Mentre il Cairo parla, con involontaria ironia, di «rifacimento delle tubature», i lavori proseguirebbero con sorprendente celerità, sia pure nel segreto più assoluto, così come ci resoconta Anna Momigliano su il Riformista. Quel che si sa per certo, riguardo all’opera, è che si tratta di una struttura con l’anima d’acciaio, rinforzata in più punti, a prova di bomba e di fiamma, estesa per una decina di chilometri e posizionata a Rafah, nel confine meridionale della Striscia di Gaza, laddove si sono ripetuti, negli anni scorsi, i tentativi, coronati da successo, di sfondare l’attuale linea confinaria, letteralmente esondando in territorio egiziano. Tuttavia, più che la parte in superficie, che è solo uno degli aspetti, e forse neanche il più importante, di questo sistema di separazione e sicurezza, ciò su cui stanno lavorando alacremente gli egiziani, parrebbe grazie anche ad un apposito finanziamento arrivato dagli Stati Uniti, è la costruzione di una barriera sotterranea, della profondità di venti o trenta metri, parallela al disegno della vecchia, inoperosa struttura confinaria, fatta di ferro. La sua funzione è soprattutto quella di impedire la costruzione di nuovi tunnel. Infatti, l’obiettivo non dichiarato ma evidente a tutti è la volontà di fermare il flusso, pressoché ininterrotto, di merci ma anche di armi, di animali come di uomini, che viene praticato pressoché quotidianamente attraverso la rete di passaggi clandestini che da anni vengono caparbiamente costruiti e ricostruiti malgrado i tentativi di distruggerne la ramificazione da parte egiziana e israeliana. Vedremo, quindi, quale sarà la reazione da parte della comunità internazionale dinanzi ad un’opera che, dal punto di vista di chi la sta costruendo, si giustifica abbondantemente con la situazione che da troppo tempo agita il confine meridionale di Gaza ma che è destinata inesorabilmente a segnarne ancora di più l’isolamento dal mondo circostante. Contro il quale, peraltro, Hamas, continua a lanciare i suoi strali di distruzione. Ragionevole pensare, quindi, che gli egiziani, mai teneri nei confronti dei palestinesi, intendano in tale modo non solo stroncare i copiosi commerci illeciti ma mettere sotto pressione gli islamismi, cercando così di ingenerare una crisi di consenso. Quali saranno gli effetti, tuttavia, in Medio Oriente non è mai facile preventivare. La scienza delle previsioni - che poi tale non è - in questa regione del mondo è destinata a continue, sonore smentite. Eric Salerno, su il Messaggero, fa poi un po’ la sintesi di queste ultime settimane in Israele riportando la notizia, in sé tutto fuorché inedita, delle rumorose rimostranze degli abitanti degli insediamenti ebraici in Cisgiordania contro il proposito governativo di bloccarne la crescita. Le pressioni americane in tal senso (ma anche quelle egiziane e giordane) non sono a loro volta una novità nel pallido panorama politico delle politiche mediorientali. Benché la stampa nostrana batta frequentemente il chiodo di una ipotetica sollevazione dei cosiddetti «coloni», il cui numero varia a seconda delle stime e dei sistemi di calcolo da 350mila a 500mila, è chiaro ai buoni frequentatori della regione che solo un nucleo relativamente contenuto di essi sia motivato ideologicamente alla scelta di rimanere, indipendentemente da qualsiasi altro ordine di considerazioni, laddove attualmente risiede. Non è meno chiaro il fatto, peraltro, che una parte corposa degli insediamenti - di fatto vere e proprie comunità urbane, anche di più di 30mila residenti, come nel caso di Kiryat Arba - non possano essere smantellati tanto facilmente. Almeno non a prezzo di causare una ingovernabile crisi tra le autorità d’Israele e una parte dei suoi cittadini, tenendo conto che la popolazione residente in Cisgiordania rappresenta circa lo 0,5 per cento dell’intera comunità nazionale (a titolo di paragone, e citiamo le cifre a memoria, si consideri che il numero di abitanti dei kibbutzim è di poco più grande). Il destino dei residenti negli insediamenti di Gaza (un piccolo segmento di popolazione che non superava, complessivamente, gli 8 mila individui), infatti, non è ancora stato definitivamente identificato a quattro anni dal loro trasferimento in terra israeliana. E questo per gli altissimi costi che ogni politica di reinstallazione di segmenti di popolazione comporta, nonché per le scarse risorse alle quali anche l’amministrazione pubblica israeliana può fare affidamento. Chiudiamo questa veloce incursione nel mondo della carta stampata ricordando (ce n’è bisogno, forse?) ai nostri lettori che questa sera ingressa Channukkà, ricorrenza quanto mai gradita nella copiosa messe di festività che accompagnano ogni anno il calendario ebraico. Auguri a tutti, quindi! Claudio Vercelli, http://www.moked.it/
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